OGGI SIM’E PUARCU…
4 min di letturaLa tradizione, gli usi popolari che si avvicinano a quelli tribali, il ricordo; e, un gradino avanti, il retaggio familiare e quello del paese natio, la difficoltà di vivere e sopravvivere in luoghi dove la criminalità organizzata ti organizza l’esistenza, che tu lo voglia oppure no, il dolore della perdita.
Tutto questo è Simu E Pùarcu, scritto e interpretato da Angelo Colosimo (nativo di San Mango D’Aquino, un piccolo paesino in provincia di Catanzaro) che chiude idealmente una trilogia dedicata alla “famiglia” intesa più come gruppo ndranghetistico che luogo di amore e che comprende i pluripremiati Agnello di Dio e Bestie Rare.
LO SPETTACOLO
Il discorso che Angelo apre e approfondisce con i suoi lavori è stratificato, inquietante e intenso: perché anche Simu E Pùarcu – letteralmente, “siamo di porco”, frase che intende quel periodo dell’anno in cui si è occupati ad ammazzare il maiale, e che è il titolo dello spettacolo rappresentato al Teatro Dell’Acquario a Cosenza all’interno di Matrioska Teatro, la rassegna itinerante fra Lamezia (al Cafè Retrò) e Cosenza appunto e diretta da Armando Canzonieri e Gianluca Vetromilo- porta avanti una riflessione cupa e angosciante sull’esistenza ancora oggi di forme ataviche di mentalità criminale e totalmente assuefatta a percorsi mentali ed esistenziali profondamente legati ad una concezione perversa dei rapporti interpersonali.
Rapporti che sono tutti declinati secondo le regole della criminalità organizzata, appunto: e che similmente all’uccisione del maiale e alla sua originaria funzione (sfamare le bocche della famiglia) funzionano solo e soltanto se e quando un gruppo autonominatosi padrone fa il bello e il cattivo tempo, ti dà qualcosa solo in cambio di obbedienza cieca, ti sfama ma solo per avere indietro un altro soldato per la sua perversa ed eterna guerra privata.
LA METAFORA
Lo spettacolo di Angelo non è solo coinvolgente: ma in alcuni punti anche soffocante. Perché attraverso l’utilizzo di metafore ampie come quelle descritte sopra parla di come a volte non ci si renda conto di vivere secondo dettami che dal di fuori sembrano assurdi e pericolosi, ma che solo raggiungendo la “giusta distanza” si rivelano sbagliati e a volte contro la legge e l’etica.
Simu E Pùarcu prende il via dalla storia, romanzata ma non troppo, della barbara uccisione di Santino Panzarella, giovane di Acconia di Curinga che, vissuto sempre all’ombra di una famiglia ‘ndranghetista, commise l’errore di innamorarsi, ricambiato, della moglie di un boss: scoperto, venne ucciso e il suo corpo gettato nel fiume dell’Angitola, probabilmente mangiato dai cinghiali (almeno secondo la ricostruzione della mamma, Angela Donato, presente in sala e da anni impegnata a tentare di gettare luce sull’atroce scomparsa del figlio).
Da qui partono e si diramano storie e racconti, personaggi e riflessioni che restituiscono allo spettatore la dimensione claustrofobica di un mondo chiuso in sé stesso ancora oggi, un mondo dove la regola dell’homo homini lupus è all’ordine del giorno e dove l’affiliazione ad un clan sembra la cosa più normale di tutte. Angelo è bravo a mettere davanti al pubblico uno specchio oscuro dove riflettere (sui) propri errori e concezioni sbagliate: ma è eccezionale la forza con la quale sul palco fa rivivere quei momenti appartenenti alla memoria di molti, dall’uccisione del maiale appunto -secondo riti e norme non scritte ma scolpite nella pietra- alla vita di paese, fatta di volti e nomi aderenti ad una realtà che sembra fuori dal mondo ma che è a soli pochi passi da noi.
E ci sono alcuni passaggi dello spettacolo, come la rappresentazione dello sgozzamento del maiale che scivola piano in quella dell’omicidio del ragazzo, che tolgono il fiato per l’intensità; e l’essenzialità della scenografia, composta solo da un tavolo e una corda con un secchio, costringe lo spettatore ad un’ulteriore salto d’immedesimazione, con il risultato di essere totalmente assorbiti dal racconto.
LE PAROLE DELL’AUTORE
Abbiamo chiesto ad Angelo il perché di alcune scelte: “lo spiego nel prologo, forse non abbastanza chiaramente. Bisogna essere onesti con gli spettatori, e lo ammetto quando recito <Di sto prologo maldestro me ne attesto potestà che se c’erano due soldi… ma c’è truscia non c’è guadagno per chiamare altra gente, solo questo che vedete>. Sono per l’essenziale in scena, zero, c’è gia una storia. LA cornice non serve, siamo a teatro e vogliamo allora fare lavorare un po’ anche gli spettatori, no?”
Valentina Arichetta