Omicidio Pagliuso. Gratteri: “Non è possibile che si uccida un avvocato”
3 min di letturaLAMEZIA. Ci sono professioni che portano in grembo il seme del pericolo. Professioni che implicano coraggio, ma anche lucidità, principi rigidi e fermezza nelle decisioni.
Eppure, per quanto difficili possano essere tali professioni, per nessun motivo la vita di chi decide di intraprenderle con passione e fede deve essere sacrificata.
Dalla sera del 9 agosto 2016, sera fatidica per la comunità forense lametina, ci si interroga sul valore della professione di avvocato: quella sera cadeva senza vita il corpo del noto penalista Francesco Pagliuso sotto i tre colpi di revolver inflittigli dall’assassino Marco Gallo.
L’episodio, le cui indagini sono giunte proprio oggi a un punto di svolta con l’individuazione certa del soggetto che ha premuto il grilletto, ha condotto a una riflessione più ampia introdotta proprio dal procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Nicola Gratteri: colpire un avvocato significa colpire un pezzo del processo.
“Non è possibile che si uccida un avvocato. Non è possibile che si uccida una parte del processo”, ha sottolineato Gratteri ricordando come la macchina investigativa si sia messa in moto già dalle prime ore e non perché la vittima fosse un personaggio di maggior prestigio rispetto a quanti prima di lui perivano per la medesima mano, bensì perché il ruolo che Pagliuso aveva era parte integrante della macchina della giustizia.
Una macchina che proprio quella sera veniva ferita a sangue. Le parti del processo, gli uomini che circondano le indagini ciascuno per il proprio ruolo e la propria funzione, vale a dire le forze dell’ordine, i magistrati e gli avvocati stessi, a prescindere da chi stiano difendendo, non possono essere eliminati per il semplice fatto che stanno svolgendo la propria professione. “Le parti del processo non si toccano”, è stato il categorico ammonimento del procuratore capo.
Non si toccano non perché siano “intoccabili” nel significato più comune del termine, quanto perché la materia che stanno plasmando, ciascuno secondo le rispettive competenze, è la giustizia. Niente di più, niente di meno.
Non è la prima volta che Gratteri riconosce le difficoltà che incontra chi, in Calabria, intraprende la carriera di avvocato penalista; non è una passeggiata muoversi tra ‘ndranghetisti che diventano sempre più deliranti di onnipotenza, allucinati dal potere che tributano loro i soldi e la paura.
“Il lavoro del penalista è un lavoro molto difficile e delicato, fatto di equilibri”. Sono equilibri instabili quelli che legano i penalisti ai loro assistiti.
“Gli ‘ndranghetisti sono dei paranoici che, nel dubbio, uccidono”. Non ci sono mezze misure e non le usa neanche Gratteri quando descrive con lucidità la situazione.
Inoltre gli avvocati, penalisti nella fattispecie, sono troppi e ciò genera una concorrenza spietata e delle condizioni lavorative poco distese.
Cosa deve fare dunque un penalista oggi? Come deve districarsi nella giungla di clienti che, se insoddisfatti o dolenti per qualche presunto ‘sgarro’, aprono il fuoco contro chi è armato solo di codice penale?
Ebbene, il procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro non ha una ricetta infallibile, questo è chiaro, ma ha dei consigli che, proprio riflettendo sulla tragica fine dell’avvocato Pagliuso, sente di dover condividere coi colleghi che, pur rimanendo dall’altra parte della staccionata, sono elementi complementari di quella struttura organica e istituzionale che è il processo.
“L’invito agli avvocati è quello di essere più duri e rigorosi e di mantenere sempre la scrivania tra loro e il cliente”. Anche gli ordini professionali, infine, hanno un compito importante: a loro e alle camere penali Gratteri chiede di essere molto più risoluti, addirittura feroci, con tutti quegli avvocati che, venendo meno al giuramento iniziale, commettono violazioni deontologiche e comportamentali.
D.L.