#ottomarzo, è giunta l’ora di infrangere lo specchio
5 min di letturaLAMEZIA. Otto marzo: ci scontriamo con la perdita di un senso o abbracciamo un nuovo modo di costruire l’esser donna? L’idea di una data nata per non cancellare mai dalla memoria lo sfruttamento, la schiavitù sociale e culturale, il sacrificio delle donne e poi trasformatasi in un giorno di festa dal mero sapore conformista, una bandierina gialla dall’odor di mimosa sventolata da alcune in nome di una libertà che, a conti fatti, è libertinismo futile che ingrossa orde di donne inscatolandole in pizzerie, ristoranti, pub quasi fossero in fuga da esistenze che solo oggi possono prendere l’agognata boccata d’aria. Ecco, questa visione della giornata odierna è quella che meno ci rappresenta e non perché il divertimento e lo vago ci siano sconosciuti, quanto piuttosto perché insito a quel comportamento v’è il presupposto tipicamente maschilista che solo oggi una donna possa prendersi la meritata pausa dal suo ruolo di moglie, fidanzata, madre e angelo del focolare. A noi oggi piace volgere lo sguardo verso quelle donne che furono e sono Madri del pensiero moderno, che con il loro essere profondamente e totalmente donne hanno arricchito la consapevolezza di ciascuna di noi. Proprio a quelle menti argute e penne veloci ci riferiamo con l’intento di celebrare la Donna nella sua completezza come presenza complementare a pari merito di una umanità che non avrebbe alcuna forza se oscurasse la metà di sé stessa.
Usiamo il verbo “oscurare” non a caso, perché il buio, l’oblio e la vergogna hanno per secoli caratterizzato il contributo concreto che le donne hanno dato allo sviluppo sociale e culturale della società. Schiere di donne il cui nome merita di essere inciso col fuoco e col ferro nelle nostre memorie giacciono dimenticate poiché la loro gloria l’hanno messa in mano a un alter ego maschile senza il quale non avrebbero potuto farsi spazio nel mondo. Quando il femminismo non esisteva e una donna aveva solo il compito di istruirsi giusto il necessario per allevare figli propri o altrui, c’era già qualcuno che la sapeva lunga sulla propria condizione e per raccontarla, per narrare, scavalcando tempo e spazio, cosa significasse essere costantemente schiacciate dall’uomo e dalla sua traboccante prepotenza, ha dovuto nascondersi dietro forme maschili. Acton Bell, scrittore schivo alla fama. Acton Bell, una donna che ha dovuto celare la propria identità divenendo uomo per il pubblico al quale ha raccontato cosa significasse esser donna. E lo ha fatto in maniera magistrale, questa donna che all’anagrafe era Anne Brontë, ma per il mondo divenne colei la cui penna scrisse di femminismo pur non conoscendolo, scrisse del suo orgoglio di appartenere a quella metà del genere umano sempre schiacciata e annullata dalla bramosia maschile di dominare. Era il 1848, e Brontë/Bell dava alle stampe La signora di Wildfell Hall (The tenant of Wildfell Hall), l’urlo di indipendenza di una donna schiacciata dagli uomini.
Donne grandi innanzi a uomini piccoli. Donne-universo che hanno impresso un cambiamento concreto o anche solo d’opinione facendoci scoprire la nudità dell’imperatore, la bassezza di chi pretendeva (e tuttora pretende) il dominio sul sesso debole. “Napoleone e Mussolini insistono tanto enfaticamente sull’inferiorità delle donne, perché se esse non fossero inferiori cesserebbero di ingrandire loro”. Parole pesanti di una donna, Virginia Woolf (Una stanza tutta per sé), la cui geniale femminilità le ha aperto spazi mentali incontaminati densi di immagini, storie e riflessioni. La donna è uno specchio, per lo meno così l’ha considerata l’uomo per secoli, un riflesso della grandezza maschile perché mente sulla propria. Tuttavia lo specchio s’infrange quando la donna inizia col dire la verità: l’uomo si fa piccolo, si riconosce piccolo, si piange riconoscendosi meno adatto alla vita. Ma quale vita? Quella che ha costruito intorno al proprio fantomatico potere. Se la cultura non fosse stata posta in mano a una sola metà del genere umano per secoli, al giorno d’oggi non vivremmo questo sgretolamento di consapevolezze errate, di uomini che vedono vacillare la propria autorità davanti a donne in grado di tracciare la via, di alzare la testa con indipendenza e caparbietà. Di strada ne abbiamo fatta quindi da quando era lecito picchiare una moglie o una figlia o da quando le uniche donne contemplate nella letteratura erano quelle create da menti maschili, complesse, certo, ma sempre realisticamente poco aderenti. Cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella altrettanto talentuosa con i suoi stessi mezzi per esprimersi? Se lo chiedeva la Woolf, e ce lo chiediamo oggi, conservando nella mente e nel cuore le figure femminili del Bardo, eppure al contempo consapevoli che Viola, Giulietta e Ofelia hanno un tassello mancante: sono donne osservate, descritte e immaginate che però ci raccontano solo ciò che vide l’uomo, non quello che esse stesse avrebbero potuto provare se fossero state reali.
Dire la verità, a questo siamo giunti. Oggi siamo chiamate a dire la verità, a infrangere quello specchio di menzogne costruito da secoli di cultura sessista, spesso misogina. Dire la verità a costo di perire, come è accaduto alla giornalista russa Anna Politkovskaja. Dire la verità a costo di vederla riconosciuta dopo decenni, come è accaduto alla scrittrice russa Svetlana Aleksievič che sul racconto della verità ha costruito le sue opere, prima fra tutte Preghiera per Černobyl’, inchiesta corale sul più grande disastro ecologico e sociale degli ultimi trent’anni. Una verità giornalistica e storica in un periodo di nuova oscurità, una verità affidata ad altre donne (e uomini, ma soprattutto donne) che l’hanno vista bruciare sulla propria pelle.
A queste donne, a quelle che sono state prima di loro e a quelle che verranno dopo, a quelle che decideranno di fare in frantumi lo specchio del dominio maschile dando voce alla propria verità, vogliamo regalare l’augurio che mai, in nessuno angolo della terra, possa ancora perpetrarsi l’abominio della sottomissione e della schiavitù fisica e mentale, perché l’umanità non è suddivisa in due parti distinte l’una subordinata all’altra, ma nasce dall’equilibrio e dalla consapevolezza che nessun futuro può esistere senza il riconoscimento del giusto valore a ciascuna delle due metà di cui si costituisce.
D.L.