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«Parràri d’arrìatu»

3 min di lettura

«Parlare alle spalle»: è un modo di dire che equivale a sparlare degli altri, a screditare il prossimo

A dire il vero la predetta locuzione è strettamente connessa ad un’altra, «chi parra d’arrìatu, d’arrìatu è tinutu», «chi parla di dietro, di dietro è tenuto», che esprime, tout court, e a struttura chiasmatica, in quale considerazione la gente del popolo tenga i denigratori.  Qualche musicista ne ha fatto pure un’aria d’eccezione: della serie quando il pettegolezzo fa spartito con chiave di sviolinata, che fortuna, eh già!

«La calunnia è un venticello, / Un’auretta assai gentile / Che insensibile, sottile, / Leggermente, dolcemente / Incomincia a sussurrar. / Piano piano, terra terra, / Sottovoce, sibilando, / Va scorrendo, va ronzando; / Nelle orecchie della gente / S’introduce destramente / E le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar. / Dalla bocca fuori uscendo / Lo schiamazzo va crescendo / Prende forza a poco a poco, / Vola già di loco in loco; / Sembra il tuono, la tempesta / Che nel sen della foresta / Va fischiando, brontolando / E ti fa d’orror gelar. / Alla fin trabocca e scoppia, / Si propaga, si raddoppia / E produce un’esplosione / Come un colpo di cannone, / Un tremuoto, un temporale, / Un tumulto generale, / Che fa l’aria rimbombar. / E il meschino calunniato, / Avvilito, calpestato, / Sotto il pubblico flagello / Per gran sorte ha crepar» (da Il Barbiere di Siviglia, Atto I – “La calunnia e un venticello” di Gioacchino Rossini).

Il retaggio classico è evidente, benché si auspichino, sul piano delle ripercussioni, minori effetti indesiderati: «audacter calumniare, semper aliquid haeret», cioè «calunnia senza timore: qualcosa rimane sempre attaccato»; sentenza, peraltro, citata da Francesco Bacone nel De dignitate et augmentis scientiarum, 8,2,34 a persistenza di una vox populi difficile a morire completamente. Per inciso ci tengo a sottolineare che la genesi è ancora più antica: nella fattispecie c’è un passo di Plutarco (dal Quomodo adulator ab amico internoscatur, 65d) in cui Medio, adulatore di Alessandro Magno, “raccomandava di attaccare e mordere senza paura con calunnie, asserendo che, anche se la vittima fosse riuscita a sanare la ferita, sarebbe comunque rimasta la cicatrice”.

Più sinteticamente, dalle nostre parti, senza girarci troppo intorno, è «llu chjatu» (cfr lo spagn. «pleito» ed il lat. «placitum»), ovvero il piato, la censura e la critica malevola, che lascia «nu bellu lausu» (dal lat. «laus»), o meglio una lode rovesciata. Che altro aggiungere!? «᾿U chjatu», concludendomi, non è solo una mal’aria, ma è anche una malaria: non c’è chinino che tenga, salvo l’indifferenza di chi se ne tira fuori, anche perché, come è risaputo, «il raglio dell’asino non arriva fino al cielo». Almeno quello, direte! Meglio partire da qualcosa, detto con un sorriso sardonico…

Prof. Francesco Polopoli

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