“Passi sulla mia testa”. Francesco Gallelli o del teatro come abnegazione
5 min di letturaCatanzaro, 16 ottobre 2022. In scena al Museo MARCA Passi sulla mia testa con Francesco Gallelli. Lo spettacolo, scritto da Fabio Butera che firma anche la regia insieme a Luca Michienzi, è prodotto dalla compagnia Teatro del Carro Pino Michienzi e realizzato in collaborazione con la Fondazione Rocco Guglielmo.
La drammaturgia di Fabio Butera si basa su una poesia di Arturo Giovannitti – The Walker – su tre frammenti poetici, in dialetto calabrese, di Michele Pane – Capitabussa, Forebandita, Azzarelleide – e su di un frammento di un articolo di Emilio Grandinetti. I tre, amici fraterni, parteciparono a diversi livelli alla lotta per l’emancipazione sociale e materiale della comunità italo-americana e dei lavoratori in genere.
È il gennaio del 1912 a Lawrence (Massachusetts), uno dei più importanti distretti tessili degli Stati Uniti. Una legge dello Stato impone di ridurre gli orari di lavoro e così gli industriali aumentano la velocità dei telai e abbassano il salario scatenando la protesta degli operai. Durante il grande sciopero detto “del pane e delle rose”, negli scontri con le forze dell’ordine viene uccisa Anna Lo Pizzo, un’operaia tessile. Di tale assassinio vengono accusati Arturo Giovannitti e Joseph Ettor entrambi aderenti al sindacato rivoluzionario Industrial Workers of World (IWW). Dopo un periodo di ingiusta detenzione che suscita grande clamore, i due vengono scagionati nel novembre dello stesso anno. The Walker nasce proprio durante la permanenza di Giovannitti in prigione.
Un nudo catafalco di legno chiaro, leggermente inclinato e trasformabile, occupa lo spazio scenico perimetrato da un rettangolo bianco. Sullo sfondo, a mo’ di quinta, un’opera di Roberto Fanari in mostra al MARCA con una personale dal titolo “Unseen” e intorno il pubblico, disposto a guisa di cornice mutila di un lato.
Gallelli domina quella stretta lingua di legno come un equilibrista sul filo teso. Il suo racconto, nero come la notte in cui è immerso, rischiarato solo dal bianco calce del suo costume e da due macchie di colore continuamente evocate, il giallo del muro e il rosso della porta, dà voce ai pensieri e ai passi del camminatore sopra la sua testa, reiterati come il lamento del pazzo o il grido sussurrato dell’innocente: Uno-due-tre-quattro: quattro passi e il muro. / Uno-due-tre-quattro: quattro passi e la porta di ferro.
Ma, nell’eterno ritorno delle serie periodiche che frazionano e scandiscono la vita fatta di giorni tutti uguali, ci sono cose che non possono essere incatenate o messe sotto chiave. E nel silenzio della notte si amplificano le percezioni, l’orecchio riesce a sentire il discorso del camminatore, muto di parole, che non ha oggetto eppure lo designa con una esattezza sorprendente affidandolo ai sospiri, ai lamenti in veglia, alla risata folle, alla tosse catarrosa fino al silenzio granitico che accomuna duecento cervelli in un unico, terribile pensiero. Laddove il mondo esterno entra con le “voci” familiari dei suoi paesaggi urbani e naturali carichi di spazio e privi di tempo: il vento, la pioggia, il suono delle campane, l’eco delle città. Un crescendo che muove dall’interno all’esterno per poi fluire e condensarsi in un unico battito, quello del cuore.
Ed ecco che si materia la prima biforcazione del tempo. Tempo della reclusione e tempo “altro” vivono simultaneamente in quel vecchio orologio che ha l’anima di un demonio e che mai ha segnato una sola ora di gioia.
Con un balzo Gallelli scende nello spazio bianco del sogno, della memoria, della scissione tra il tempo cronologico del reale e il tempo sospeso dell’immaginario e si produce in frammenti di un discorso amoroso entro le falde spigolose di un’ars amandi bruta e verace, a metà tra la Commedia dell’arte e il teatro delle marionette. La lingua è il dialetto aspro e dolce di Michele Pane che tra maschera e malinconia ritrova la sua tenerezza in quell’aggettivo di grande bellezza felina “’ngattate, ‘ngattate ammenzu alli vrazzi mia, supra stu pettu cumu nu piccirillu quandu allatta”.
Nel doppiare gli itinerari, Gallelli si ritrova nei tre metri claustrofobici della sua stanza-prigione, i discorsi riguardano qualcosa di più segreto, profondo, la parola muta in allegoria. I passi del camminatore si estendono alla natura universale degli uomini su questa terra dove ogni individuo tra discese e salite, con passi calmi, lenti, rumorosi, vivaci, rapidi, agitati, pazzi si affatica a verificare la propria libertà.
Qui, secondo la logica dell’incongruenza onirica che segue le linee di un pattern non conseguenziale, si innesta il secondo slittamento temporale con il discorso vibrante sul lavoro e sulle lotte sindacali di Grandinetti stemperato dall’Azzarelleide di Pane che, annunciata dal suono della vrogna e dalla verbigerante maschera racconta, in vernacolo calabrese, le imprese quasi donchisciottesche di Azzariellu.
L’ultimo tableau si inscrive ancora nel tempo cronologico. Consegnato agli incubi della notte, il pensiero smarrisce il senso della sua disperata certezza, dell’infuocata matrice della ragione e si coagula in una piccola chiave di ottone dorato riposta nella tasca di un uomo dai capelli bianchi. Un minuscolo oggetto del desiderio che, solo, può aprire il rosso varco irridente che separa il camminatore e altri duecento reclusi dalla libertà. E in questo punto si realizza una sorta di “indiamento” tra il secondino e Dio, rivelato anche dall’andamento da salmo responsoriale “Lui è importante, potente, formidabile, l’uomo dai capelli bianchi […] / ll più importante di tutti gli uomini è l’uomo dai capelli bianchi [… ] /Lo chiamerò Onnipotente poiché con la piccola chiave di ottone fuso tiene tutto in pugno, di tutti e di me… ” laddove, le ultime parole acquistano il sapore di una preghiera rivolta al camminatore senza sonno e, nell’impossibilità che l’Io possa tranquillamente ripiegarsi su sé stesso recidendo quel cordone ombelicale che incatena la sua mente ai piedi del camminatore, Gallelli tenta ancora una volta la fuga (immaginaria) dalla scatola carceraria urlando nella lingua dei padri.
L’innesto di frammenti e la curata impalcatura sonora conferiscono alla scrittura drammaturgica un andamento modulare e variato trasformandosi in schegge dello smarrimento di identità. La regia di Butera e Michienzi sta tutta dentro al testo e in rapporto all’attore, un Francesco Gallelli di eccezionale bravura che porta sul suo corpo i segni di quel lungo peregrinare e di una profonda stanchezza ma anche l’impeto e la dolcezza della sintassi gestuale nella sua relazione con gli elementi scenici superbamente creati da Butera: le maschere espressive, la marionetta di grande armonia figurale, la scarpa che pare dimenticata ai margini dello spazio bianco…
E così il teatro diventa carne e fatica e sudore veri per uno spettacolo mai consolatorio che, anzi, lascia in bocca un retrogusto amaro e una certa inquietudine ma strappa applausi lunghi e liberatori.
Giovanna Villella
[ph_Franco Mazzei]