LameziaTerme.it

Il giornale della tua città



Preti e religiosi nei nostri modi di dire

3 min di lettura
Preti e religiosi nei nostri modi di dire

«L’hanu cunzatu a cappìallu i prìaviti!» («l’hanno aggiustato a cappello di prete!»): è una locuzione lametina che ha il suo parallelo nell’italiano “lo hanno aggiustato per le feste” e che si usa per significare che una persona è stata conciata male e/o ridotta in pessime condizioni

Tale modo di dire, con molta probabilità, ha qualche relazione con la figura d’un pievano di nome Arlotto, vissuto nel secolo XV, e rimasto proverbiale, oltre che per le sue facezie, anche per la sua sciatteria e, soprattutto, per il suo copricapo floscio e sbertucciato.

Di lui ne parlano financo Lorenzo de’ Medici nel Simposio (VIII, vv. 25-48), laddove Luigi Pulci, invece, lo ricorda sia nel Morgante come ghiottone (XXV, vv. 217-220) che nella frottola risalente al 1466 I’ vo’ dire una frottola (vv. 82-84); che dire, un prete mediatico d’allora, sicurissimamente! Non c’era ancora Tv 2000 o telepadrePio!

Non può mancare all’appello, poi, un aneddoto in lingua latina, rimanendo sempre dentro questo bel recinto ecclesiale. Secondo una tradizione cinquecentesca un tal Martino era abate di Asello: proprio lui, a decoro della sua abbazia, decise di scrivere un bel messaggio di benvenuto, nel classico stile Welcome, come siamo usi tutti noi per i nostri visitatori all’ingresso delle nostre cittadelle: «porta patens esto. Nulli claudatur honesto», cioè «la porta resti aperta.

Non sia chiusa a nessun uomo onesto». Purtroppo, l’artigiano cui era stata incaricato il lavoro, complice probabilmente la stanchezza o la distrazione, sbagliò la posizione del punto e scrisse: «porta patens esto nulli. Claudatur honesto», ovvero «la porta non resti aperta per nessuno. Sia chiusa all'(uomo) onesto».

E qui iniziarono le rogne per il nostro buon uomo: la notizia di un messaggio così contrario alla «charitas christiana», infatti, raggiunse le alte sfere ecclesiastiche, che decretarono l’immediata sollevazione dell’abate, privandolo della cappa (cioè del mantello), che di tale dignità era simbolo, per l’appunto.

Fu una tragedia greca, c’era da immaginarselo; d’altronde, cronologicamente, siamo ben lontani dal divertissement di una lettera di Totò e Peppino o dalla splendida missiva al Savonarola di Massimo Troisi e Roberto Benigni. Fuori classe, quest’ultimi, al di là degli errori, fuori dalla classe quello, poveretto! Cosa bisogna farci? Come dice un altro nostro proverbio a chiusa di tutto questo breve discorso: «e ccu lla gghjasa t’a pigli!?».

Prof. Francesco Polopoli

Click to Hide Advanced Floating Content