Un Re Peperino. L’Ortolano o Ortaggi in una ciotola
5 min di letturaMuseo Civico Ala Ponzone di Cremona
Mentre mi lascio alle spalle la leggenda fiabesca di San Martino, che fa da ponte tra più generi letterari, nella ricodifica di arrivo dell’altro ieri, procedo con un’altra storia calabrese, di cui so ricostruire perfino l’anno originario di trascrizione. Era il 1984: la voce narrante, quella della mia Maestra elementare, la signora Maria Pullia, con cui apro, in suo ricordo, questa fiabetta.
Quante volte diciamo comunemente «si l’ha ’mpastatu ccu lli mani?»: beh, che dire!? Una Fornarina calabrese si è ingegnata a farlo tanto tempo fa. Cotto e a puntino è la storia che ripresento: ne seguo solo la rammemorazione, nel rispetto della sua conservazione, nient’altro di più!
C’era una volta un Re, padre di una figlia, già orfana di madre: non facile, per caratterino, dagli albori della sua nascita fino all’età in cui avrebbe dovuto scegliere per sé un compagno di vita. Essere monogenitore non era semplice, già d’allora: immaginate il peso di un Reame molto complesso sulle spalle gracili di un uomo abbastanza solo, giusto per farne un profilo, poveretto!
«Figlia mia, perché non ti vuoi sposare?», si permise di chiederle una mattinata di buon’ora, mentre lei di tutta risposta «Papà, se mi volete maritare, mi dovete dare un quintale di farina ed un quintale di zucchero, perché lo sposo me lo voglio fare con le mie mani».
Il sovrano si arrese sulle sue spalle, dandole l’assenso, che avrebbe potuto fare!? Ed iniziò l’opera creatrice, un “umanificio”, potremmo chiamarlo: sei mesi ad impastarlo, peperoncino rosso al posto della bocca, e via…sistemato in una nicchia nel muro, pensate, come i Santi delle nostre chiesette!
«Papà, papà, ecco il mio sposo»: gridò nei corridoi del palazzo, cercando, affannosamente, lo sguardo del babbo.
«Che devo dirti: va bè, cuntenta tu, pigljiatìllu tùni stu mutu, mòni!», replicò l’altro con benevola rassegnazione di chi non intende ferire la fralezza della sua Principessina.
«Datemi ancora tempo: sicuramente riuscirò ad animarlo»: finì col congedarsi dal genitore col viso rotto da qualche lacrima dissimulata.
«Mio re Peperino,
messo su un altarino:
sei mesi a setacciarti,
sei mesi ad impastarti,
sei mesi a sfarinarti,
sei mesi a rimpastarti,
sei mesi lì dentro ad aspettare,
sperando di sentirti parlare».
La filastrocca, che andava ripetendo pervicacemente, incrociò la pietà di qualche buon Intercessore che, dal Paradiso, le fece la grazia del Verbo: dalla lallazione alla conversazione il passo fu breve, finché si propagò la gioia più totale in tutto l’ambiente di corte per il dono della parola.
Bocca di Pepe per una Rosa di donna: De André avrebbe scritto un’altra canzone per loro, sicuramente! Tuttavia, nel mezzo di una giornata autunnale, una brutta folata di vento le tirò dai piedi il suo caro consorte: la sorte sembrò sortirle un tiro mancino in un momento di disattenzione, chi avrebbe potuto immaginarlo!?
Senza cedere alla malinconia, alla reginotta venne in mente di prendere un cavallo e un po’ di denari ed andare alla ricerca del proprio compagno: tutto il senso della giornata portava con sé quest’ottimistica aspettativa. Cammina cammina, per tre volte, nel cuore della notte, si lasciò catturare dalle luci flebili di un magnetico lumicino: sull’uscio di porta sempre un eremita barbuto a raccogliere le sue ansie e a farle ristoro con un dono diverso.
Una castagna, una noce, una nocciola da aprire in futuro, quando sarebbe arrivata in un paesino con annesso carcere attaccato ad un palazzo incantato: questo era quanto lei suggerito, prima di farle proseguire la strada in avanti. Sentiva che il suo Peperino (che non era un peperino, come carattere, ma mite allo stato pieno, quasi da letargizzare), si trovasse proprio lì, più vicino di quanto pensasse, e con la scusa di far visita alla padrona di quel Reame schiacciò la frutta secca, che aveva sistemato in una taschetta laterale del suo gilettino smanicato.
Con telaio e cesto dorati, spuntati dai fruttini d’autunno, si presentò al cospetto di una draghessa, cui chiese solo la cortesia di una notte di riposo, per averle fatto omaggio di adorazione, seppur senza stella cometa, da così tanto lontano. Fu accontentata a patto che l’indomani se ne sarebbe andata alle primissime luci dell’alba: «quando mattutina sarebbe apparsa Aurora dalle rosee dita», per dirla con Omero, lei assicurò che avrebbe imboccato il sentiero per fare rientro dalle sue parti. Approfittando della quiete notturna, ritrovò con circospezione suo marito, facendosi guidare da quelle sole corde del cuore che sanno attecchire, quando l’incertezza dondola per allentarle: in sella sul cavallo, speronò il fuggi fuggi, prima che i raggi del sole potessero declinare a sera di destino per entrambi.
La draga, ridestatosi, non trovando più il suo prigioniero, elevato a suo concubino, non solo per capriccio, ma anche per un suo cruccio, cominciò a dimenarsi: «Ah, vita mia sbinturata! Sugnu ’na serpa propriu spurtunata!». Arrivò a spezzarsi i capelli e a sfregiarsi il corpo sbattendo, di qua e di là, la testa al muro, fino a morire. Nel frattempo, gli sposi raggiungevano il palazzo da cui le loro peripezie erano cominciate, per farli successivamente dividere: affacciato al balcone stava il Re padre che, dalla contentezza, dopo aver focalizzato i suoi familiari, tra l’altro, in groppa al suo riconoscibilissimo destriero, gridò: «Fìigljiama arrivau ccu chillu maritu bùanu cumu ’u pani, finarmenti!».
E tutto si aggiustò perché vivessero, dipoi, felici e contenti tra pitte impigliate, cuzzupe e mostacciuoli di ogni specie. Da allora le panetterie continuano ad avere sapori romantici: le storie non hanno smesso di impastarsi come pane quotidiano. Sospiri con preghiera: Salve, regina tra lirica cavalleresca ed orazione a razione di ringraziamento.
A Manuelita Iacopetta, il cui amore per la bellezza sa accompagnare le memorie a gioielli di sguardi.
P.S: Bello è ritrovarsi tra i fogli di un’età giovanissima che rispetto nella forma, senza alterarla, se non per pochissimi dettagli. Di base sta la mia anima che, se non scocca meraviglie, finisce che si scoccia: già dall’84 ed ero piccolo piccolo…
Prof. Francesco Polopoli