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Riace, un paese senza sindaco dal futuro sempre più incerto

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Il sindaco di Riace Domenico Lucano a Caulonia Marina (Reggio Calabria) dopo aver lasciato il centro della Locride osservando il divieto di dimora impostogli dal Tribunale del riesame, 17 ottobre 2018. ANSA/MARCO COSTANTINO

Un paese disabitato, sospeso nell’incertezza del futuro dei propri abitanti. All’arrivo a Riace, di prima mattina, è questa la sensazione che si coglie, nel primo giorno senza il “faro” – come lo chiama qualcuno – che ha illuminato gli ultimi 15 anni di vita di questo borgo di sole 500 anime locali e 150 provenienti dai più svariati Paesi del mondo, arroccato sulle pendici a 7 chilometri dal mare Ionio.

Domenico Lucano, il sindaco sospeso, oggi non c’è, costretto a vivere altrove dai giudici del Tribunale della libertà di Reggio Calabria. E la sua è un’assenza che pesa, anche perché dalla durata indefinita.
Un’assenza che genera rabbia ed incertezza, non solo nei migranti, ma anche in tanti riacesi che nella politica dell’accoglienza avevano visto un’occasione di riscatto per l’intero paese. Un’occasione per non cedere alla necessità dell’emigrazione. Prospettiva su cui adesso pesa come un macigno la vicenda giudiziaria di “papà Mimmo” – così i migranti chiamano Lucano – e la sua assenza che per molti è destinata a segnare in negativo il futuro dell’esperienza Riace.
Le strade ed i vicoli del paese, vissuti fino a pochi mesi fa da un’umanità multietnica, oggi sono desolatamente vuoti, quasi che i migranti, ma anche molti paesani, si siano messi ai “domiciliari” in attesa di capire gli sviluppi. Su via Roma, nella piazzetta che si affaccia su un parco attrezzato per i bambini e dal quale si gode uno splendido panorama marino, c’è il “Meeting bar”, uno dei principali luoghi di ritrovo del paese. Ma oggi ci sono solo giornalisti e pochissimi avventori.
Nel pomeriggio la balconata si movimenta appena poco di più con i pensionati che si ritrovano per giocare a carte. E tra loro anche il padre di Lucano, Roberto, quasi 92enne, insegnante in pensione, che ancora non si capacità dell’allontanamento del figlio.
Percorrendo via Roma si arriva nella parte storica del paese, il fiore all’occhiello di Riace, quel “villaggio globale” fortemente voluto da Lucano e diventato famoso nel mondo, dove l’integrazione si tocca con mano. Qui, sui vicoli stretti in pietra, tra case basse bianche e grigie, si affacciano decine di botteghe artigiane condotte, fianco a fianco, da italiani e migranti. Botteghe che però sono chiuse ormai dall’agosto scorso. I fondi da Roma per il progetto Sprar non arrivano da un anno e mezzo. E dopo l’estate gli artigiani sono stati costretti ad appendere i loro attrezzi al chiodo. E così nel “villaggio globale” adesso restano solo le targhe colorate poste fuori dalle botteghe ad indicare l’origine etnica dei lavoratori e i tanti affreschi che raccontano l’esperienza di accoglienza e integrazione. Col passare delle ore, alcuni degli artigiani riacesi si affacciano nei vicoletti e aprono le loro botteghe, ma solo per fare capire ai giornalisti cosa sia stata l’integrazione da queste parti. Irene lavorava nella vetreria da dieci anni e quando parla delle prospettive non riesce a trattenersi e scoppia in un pianto dirotto. “Il lavoro – dice con gli occhi rossi – era tutta la mia vita. E ora con questa situazione non so cosa potrà succedere”. Accanto a lei Rauda, una giovane somala che da tre anni l’affiancava nell’attività di laboratorio. “Mi piaceva stare qui – dice anche lei con gli occhi gonfi di lacrime – e sono molto triste. A questo punto non so se me ne andrò”. Ed è proprio questo che fa paura, anche ai riacesi. Più di uno tra i migranti ed i rifugiati che vivono a Riace hanno manifestato l’intenzione di andarsene. Senza “papà Mimmo”, è la loro preoccupazione, per Riace non c’è futuro. “Lo ha detto anche il ministro dell’Interno che l’esperienza Riace è finita”, dice Daniel, giovane ghanese. Una prospettiva che fa paura. “Prima a Riace c’erano turisti, adesso non si vede nessuno; con questa vicenda non sono soltanto i rifugiati ad essere danneggiati, ma anche noi” dice Antonio, che lavorava nel laboratorio di falegnameria insieme ad un ragazzo del Kurdistan. Adesso i suoi prodotti, come quelli di Irene e Rauda, sono mestamente sistemati sugli scaffali, celati dal buio di negozi chiusi.

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