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Salvatore Sestito: dalla guerra sul Carso al Partito Popolare di don Sturzo

7 min di lettura

Cento anni fa, esattamente il 18 gennaio del 1919, si verificò in Italia un avvenimento di eccezionale importanza per la storia d’Italia di cui fu protagonista don Luigi Sturzo. 

Il grande sacerdote siciliano di Caltagirone – insieme ad un ristretto gruppo di amici (Giovanni Bertini, Giovanni Longinotti, Achille Grandi, Angelo Mauri, Remo Vigorelli, Giulio Rodinò, Alcide De Gasperi, Giovanni Granchi, il calabrese di Cosenza, Luigi Agostino Caputo ed alcuni altri ancora….) riuniti nell’albergo Santa Chiara in Roma –  fondò il Partito Popolare Italiano (P.P.I.). Alle elezioni del 16 novembre del 1919 (le prime che si tennero dopo la riforma elettorale in senso proporzionale) raccolse il 20,5% dei voti, cioè 1.167.354 preferenze e 100 deputati al Parlamento  diventando il secondo partito italiano dopo quello socialista. D’ispirazione cattolica ed  interclassista, ma aconfessionale e laico, il PPI fu sempre inteso da Luigi Sturzo come un soggetto politico democratico, rappresentativo delle masse cattoliche – le quali fino ad allora erano  rimaste escluse dalla vita politica e dal governo del Paese – che dovesse misurarsi con metodo e strumenti laici, appunto, sul terreno della politica, senza mai coinvolgere né compromettere la Chiesa nel dibattito e nello scontro partitico/politico.

Ricorre anche il sessantesimo anniversario della morte del sacerdote calatino avvenuta l’8 agosto del 1959, all’età di 88 anni, in Roma, nella Casa Generalizia delle Suore Canossiane dove ormai viveva dopo il suo rientro in Italia dall’esilio, durato per ben 22 anni.
Dal 1962 don Luigi Sturzo è  sepolto a Caltagirone, sua città natale.
Ricorre poi un terzo avvenimento, chiuso nello scrigno esclusivo dei miei ricordi personali ed intimi, che consiste nella partecipazione di mio padre, Salvatore, alla Grande Guerra del 1915/18 e nella successiva sua adesione al Partito popolare italiano.
Con questo breve scritto è mia intenzione riportare alla memoria  e alla conoscenza degli amici che  lo leggeranno proprio quest’ultima ricorrenza, cercando di spiegare quando, come e perché, avvenne questa importante scelta di mio padre, che avrebbe lasciato tracce profonde nelle sue idealità e nel complesso dei suoi valori personali ed in quelli della sua famiglia.


Mio padre fu arruolato per partecipare alla Grande guerra, quando ancora non aveva compiuto 18 anni. Essendo nato il 22 aprile del 1899, ultimo di sei figli maschi, allorchè gli giunse la cartolina/precetto di chiamata alle armi,  partì nel gennaio del 1917 con il primo contingente formato da 80mila giovani che erano nati, appunto, nel primo quadrimestre del 1899. Costituivano, questi giovani venuti alla luce in quell’anno, la prima parte dell’ultima classe di leva (360mila uomini in tutto…) di cui l’Italia poteva disporre per gettarli nell’orrenda mattanza in cui ormai si era trasformato lo scontro belluino tra le diverse nazioni europee in guerra. La “Triplice Alleanza”, da una parte, formata dalla Germania, l’Impero austro ungarico, la Turchia;  la Triplice Intesa, dall’altra,  in cui si erano coalizzate la Francia, l’Inghilterra, la Russia e l’Italia, che vi aveva aderito successivamente con la firma del Patto di Londra. Aveva, allora, mio padre, 17 anni e nove mesi. Sorridendo, lui amava dire che non gli erano ancora spuntati i primi peli sul viso e che imparò a radersi la barba nelle trincee del Carso.


Fu chiamato a Torino e lì, nella splendida ma fredda città piemontese, inquadrato nei reparti della Milizia territoriale. Effettuò un breve e sommario addestramento sicchè,  dopo il disastro dell’esercito italiano a Caporetto, nell’ottobre del 1917, fu fatto salire su <<La tradotta che parte da Torino [e] a Milano non si ferma più ma la va diretta al Piave, cimitero della gioventù…>>, inquadrato nelle divisioni di fanteria della Terza Armata, comandata dal Duca d’Aosta che operava nella zona del Carso, da Gorizia al mare e fu inviato immediatamente al fronte per prendere parte alle operazioni militari. Il Carso è un altopiano che si stende da Gorizia  a Trieste, diventato famoso in seguito alla guerra, sui cui pianori e nelle cui doline, migliaia di uomini, per lo più giovani e giovanissimi,  immolarono la loro vita durante la guerra.

Rimase sul Carso per l’intero 1918, mio padre, fino ed oltre la vittoria italiana del 4 novembre di quell’anno combattendo e sostando, per l’intero anno, nelle famigerate trincee carsiche. Buche orribili, quelle trincee, scavate sottoterra in cui trascorse quegli interminabili mesi con i suoi compagni, moltissimi dei quali ragazzi ancora imberbi come lui, tra inenarrabili privazioni e sofferenze, convivendo talora con  i topi ed i morti in putrefazione. Con il sopraggiungere del rigido inverno del 2018, che con anticipo coprì con un impenetrabile manto di neve tutto l’Altopiano carsico, contrasse il congelamento ai piedi per cui fu trasportato, con ritardo purtroppo, negli ospedali prima di Padova, poi di Verona, per essere curato. Dovette comunque pagare un tributo personale  di sangue perchè gli fu amputata parte del piede sinistro per evitare conseguenze assai peggiori. Come la cancrena, che si temette potesse rapidamente subentrare al congelamento.

A proposito dell’entrata in  guerra dell’Italia,  mio padre amava ripetere ch’essa era stata da lui “non voluta, vissuta e vinta”. Apparteneva, infatti ad una famiglia di tradizioni cattoliche tant’è che una sua zia, Raffaelina, sorella di suo padre Peppino, era in procinto di chiudersi in convento per farsi suora allorchè morì la cognata, mia nonna, e a lei mio nonno Peppino, che non volle risposarsi, affidò il compito di crescere ed educare i suoi sei figli maschi nati dal suo matrimonio.

Allo scoppio della guerra, questo è risaputo, la Chiesa cattolica manifestò il suo orientamento contrario al conflitto per cui si capisce l’avversione iniziale dei cattolici italiani e, quindi, anche di mio padre verso di essa. Erano quelli i sentimenti e le idee che circolavano all’interno della sua famiglia. Comunque, chiamato alle armi, indossò la divisa grigio-verde dei soldati italiani, partì, combattè e diede il suo contributo perché l’Italia ne uscisse vittoriosa. Come ho detto sopra, fu anche un contributo di sangue il suo, per vincere la guerra e completare l’Unità del Paese mediante l’annessione all’Italia di Trento, Trieste ed il rimanente del Veneto che, fino alla conclusione della guerra ed alla vittoria dell’Italia, si trovava ancora in mano dell’Austria.
Ecco  perché adesso mi si rivolta  il sangue quando sento Salvini, leader della Lega, parlare di autonomia del Nord, con sottintesa la vecchia rivendicazione dei Lumbard, mai abbandonata, di “secessione” ed “indipendenza” della “Padania” dal resto d’Italia con la relativa disgregazione della nostra Patria.
Non immagina, il  capo della Lega che, in quella guerra, furono proprio i giovani delle regioni meridionali a cadere e morire in maggior numero per completare l’Unità d’Italia. Ed alla testa del lugubre elenco di morti e mutilati c’è proprio una regione meridionale: la Sardegna. Ch’ebbe il maggior numero di soldati caduti.

Durante la permanenza nei due ospedali veneti, mio padre venne in contatto con il Movimento cattolico, l’Opera dei Congressi, che in Veneto, insieme all’Azione cattolica, era particolarmente ramificato e forte. In quella regione, la notizia della fondazione del Partito popolare il 18 gennaio del 1919 da parte di don Luigi Sturzo, già allora conosciuto, si sparse rapidamente. Pur essendo un  giovane di appena 20 anni, ma d’ingegno vivace e versatile, la cui cultura era solidamente alimentata da un’assidua lettura dei classici europei, soprattutto francesi e russi, s’interessò subito alla notizia, l’acquisì e l’approfondì leggendo tutti i giornali di cui potette venire in possesso e, dopo una breve riflessione per capire meglio – come lui spesso mi diceva – decise di aderire al Partito popolare appena fondato dal carismatico prete siciliano di Caltagirone.


Ritornato in Calabria alla fine del 1919, pur non essendo ancora completamente  guarito, cercò di mettersi in contatto con le persone che tentavano di costituire il PPI  nella provincia di Catanzaro
.  Alla testa delle quali c’era il grande intellettuale Vito Giuseppe Galati, di Vallelonga, leader dei cattolici popolari della provincia catanzarese, che in seguito sarebbe diventato il segretario provinciale del PPI e direttore del relativo giornale, che si pubblicava con il titolo “Il Popolo”.

Scrive a tale proposito lo storico Francesco Malgeri: “Il Popolo” di Catanzaro – che aveva anticipato di oltre un anno quella che sarà nel 1923 la nuova testata ufficiale del partito affidata alla direzione di Giuseppe Donati – fu qualcosa di più di un semplice settimanale di provincia, portavoce della locale sezione del Partito popolare. A sfogliare le pagine di questo giornale si coglie – grazie soprattutto a Galati – uno spessore ed una qualità in linea con la migliore tradizione giornalistica del cattolicesimo democratico e della stampa popolare di quegli anni. Insomma, il Popolo di Galati non aveva niente da invidiare a giornali come “Pensiero popolare” di Attilio Piccioni o “Il Domani d’Italia” di Francesco Luigi Ferrari.
Nelle elezioni politiche del 1921 e del 1924, mio padre, poco più che ventenne, fu un attivo  militante del Partito popolare e, per quanto le sue ancora precarie condizioni di salute glielo potessero permettere, fece propaganda per la sua affermazione elettorale.


Nel secondo dopoguerra,  l’adesione alla Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, che del Partito di don Luigi Sturzo si proponeva come l’erede naturale degli ideali e dei valori e la continuatrice delle scelte e dei programmi politici, fu un’adesione scontata, naturale.
Ai valori del popolarismo sturziano prima ed a quelli della Democrazia cristiana degasperiana, in seguito, mio padre e la sua famiglia rimasero fedeli, per sempre. Ed il primo libro che mi regalò, mentre frequentavo le scuole medie ed incominciavo a leggere un po’ di tutto, fu proprio un saggio politico, contenente una raccolta di articoli e scritti di Luigi Sturzo, appena pubblicato con il titolo “Popolarismo e Fascismo”. Perché, mi disse, attraverso le parole di Luigi Sturzo comprendessi, interamente e subito, la profonda differenza tra la democrazia e la libertà da una parte e il totalitarismo e l’oppressione dall’altra. E facessi in modo consapevole le mie scelte politiche!

Giuseppe Sestito

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