I sette vizi capitali, tutti in dialetto!
3 min di letturaTutti abbiamo purgato in questa fase di lockdown, non avendo visto «luci ‘i Paradisu, mo’ cci vò»: per questa ragione mi son chiesto («cchi scàrminu c’aju avutu!») come potessero essere espressi i sette peccati capitali alla luce dell’idioma lametino
E che cornice che ne è uscita, seguitemi!
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- Superbia: «chilla [persona generica] è tutta nasca e fìatu». Va sottolineato, al riguardo, che l’identificazione delle narici e del naso con quest’albagìa ci proviene dagli Arabi, per i quali la cavità nasale era, appunto, la sede naturale di questa tronfia prosopopea.
- Invidia: «s’ ‘a ‘mbidia fhussi guallara, tutti avèranu!» («Se l’invidia fosse ernia, tutti l’avrebbero!»); è un noto proverbio che afferma in modo piuttosto realistico che, se questo sguardo di malevolenza fosse come certi malanni fisici che è impossibile nascondere, ci accorgeremmo che è, purtroppo, un vizio a cui sono soggetti non pochissimi uomini.
- Ira: «quandu vid’i mulinari mbrigàri, mèsat’ ‘a cirm’ e bbatìndi!» («Quando vedi i mugnai brigare, prendi il tuo sacco di frumento e vai via!»). È un adagio che invita a stare alla larga, specialmente se si corre il pericolo di rimetterci qualcosa, da coloro che sono sul punto di attaccare questioni: «quadiarsi», ricordano i nostri antenati, «fa vasciari ‘i nu scaluni». «E pua ‘a fhaccia d’ ‘arraggiati ‘un è bella propriu ppi nnènti», a prova di Nivea, credetemi!
- Accidia: per uno che non riesca a trovarsi a suo agio in alcun luogo e sia costretto a cambiare continuamente sede si dice che «‘un piglia lippu a nissùna banda» a ricordo della «commutatio loci» di memoria oraziana; per chi vive un loop psicologico, attraverso l’intermediario greco «cholè», la voce lametina «còlara» dice di più «dell’aegritudo petrarchesca»; per quanti, al contrario, sono incalliti ed abbonati al puro piacere di pigrizia, scartabelliamo due lemmi per qualificare i bighelloni e i perditempo imperdonabili, cioè «i vacatizzi e i lirvìari».
- Avarizia e prodigalità: «‘ i sordi d’ ‘avaru s’ ‘i mangia llu sciarguni!» («I soldi dell’avaro faranno felice lo scialacquone!»). Questo adagio non è mai valso ad impedire che tantissimi tendessero, nel corso della loro vita, ad accumular ricchezze a tutto spiano e a consegnare, così, un bottino più pingue agli eredi scialacquatori.
- Gola: «mangia quantu vidi!» («Mangia quanto vede!»). Lo si dice di un tipo che sia noto per il suo formidabile appetito e che quando siede a tavola non dice mai “basta”, fino a quando vi è qualcosa da far fuori. Della serie, quando «‘a canna fa cichi cichi!».
- Lussuria: «bona giuventù e mala vicchjizza» o in un modo più sboccato «cani e buttani, quandu sunnu vecchji morinu ‘i fami» («i cani e le prostitute quando invecchiano muoiono di fame»). No comment, direi!
Che altro aggiungere!? «U Signuri mu pruvìd’a tutt’e ddi nua m’u’ ssi ndi scorda!» («Che il Signore provveda a tutti e che non si scordi di noi!»): e, soprattutto, arrivato a questo punto, me la sono meritata la Grazia della vostra attenzione, che ne pensate!?
Prof. Francesco Polopoli