Sisifo: una gatta da pelare!
3 min di letturaNon ha nulla a che vedere con il Gatto con gli stivali di Charles Perrault o dei fratelli Grimm quanto sto per raccontarvi: cerco di dirimere una controversia, sorta via web e che trovo eccessiva.
Non è nuovo chiamare i nostri animali con i nomi della mitologia classica: Pluto, Ares, Gaia ed Eros vanno per la maggiore, per farne degli esempi.
Eppure “Sisifo” è sembrato un po’ inopportuno, accanto ad un semplice post mediatico: mi chiedo semplicemente il perché, o se questione non appaia inutile e di lana caprina.
Il fatto, poi, che sia stato accompagnato dall’altisonante versificazione omerica non ha fatto altro che far storcere il naso. Qui, cadiamo nell’esagerazione, direi.
E poi Sisifo vidi, che spasimi orrendi pativa,
che con entrambe le mani spingeva un immane macigno.
Esso, facendo forza con ambe le mani ed i piedi,
su su, fino alla vetta, spingeva il macigno; ma quando
già superava la cima, lo cacciava indietro una forza.
Di nuovo al piano cosí rotolava l’orrendo macigno.
Ed ei di nuovo in su lo spingeva, e puntava; e il sudore
scorrea pei membri; e via gli balzava dal capo la polve.
(Odissea, Canto XI, vv. 593-600, trad. E. Romagnoli)
Sisifo, mito variegato, complesso e carico di significatività, nonché personaggio multiforme e multifunzionale, riconducibile in generale all’archetipo del “trickster”, non puo essere ridotto alla mera brevità di una scemenza visiva: ha tutta la presentazione di una sentenza capitale, mi sembra, oh no!?
Ma santo cielo, è già un’impresa seguire, attraverso questa riflessione, la reale fatica di Sisifo: un po’ di leggerezza mica guasta ogni tanto; anzi, un tondo di anguria non ha capacità di spolpare proprio nulla né di far appesantire la testa alla pari di un cocomero.
Detto ciò, gli animali domestici concorrono a risvegliare i sentimenti più nobili, è Vulgata, questa, senza dover scomodare filoni di scuole psicologiche al riguardo: lo sapevano pure i discendenti di Enea, eh sì! Per inciso anche questo è di casa in tante d’Italia a far le fusa ai propri padroni.
Mi chiedo, quindi, perché sorprendersi della cosa, allora: Cat(ulus), e.g., non è l’albionico “cat”, gatto, ma cucciolo, alla base onomastica di un Catullo, poeta dell’amore, nel mondo latino: e in effetti, lui e la sua Lesbia sono stati, fuor di battuta, cani e gatti, e su questo c’è tutto un libretto lirico che ce lo testimonia, proprio così!
O forse Clodia, era questa il nome reale dell’amata, schermato dallo pseudonimo patrionimico della grande Saffo, fu anche una gatta morta? Forse se il nostro poeta non avesse fatto il tenero gattone, ci avrebbe rimesso di meno: si sa che quem saepe transit, casus aliquando invenit, ovvero che tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, ma questo è un altro discorso. Ahahah
Prof. Francesco Polopoli