Stagione teatrale AMA Calabria. “Generazione disagio”, quando la morte si fa gioco
4 min di letturaCatanzaro, 14 febbraio 2019. In scena per la stagione teatrale organizzata da AMA Calabria al Teatro Comunale di Catanzaro Generazione Disagio. Dopodiché stasera mi butto di e con Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi, Andrea Panigatti, Luca Mammoli, regia di Riccardo Pippa.
Uno spettacolo pluripremiato che è risultato vincitore al Play Festival 1.0 2015 di Roma; vincitore del Bando Visionari 2015, Teatro Off di Como; vincitore della III edizione de Le Città Visibili di Rimini.
Perché il teatro dovrebbe sempre rappresentare sentimenti buoni, eroici, assoluti? C’è una legittima istanza da parte di categorie “altre” che non rientrano nell’Olimpo del rappresentabile a chiedere attenzione? Se Baudelaire ha fatto altissima poesia con I fiori del male, perché non si potrebbe fare buon teatro con temi come disagio, precariato, malessere, depressione, sesso, suicidio demistificandone il senso?
La risposta è un allestimento grottesco, perfido, crudo, irresistibile dei rituali del teatro dove i codici vengono continuamente ribaltati, trasgrediti, irrisi (la voce fuori campo invita a non spegnere i cellulari) ma è anche l’affermazione dello spettacolo teatrale come drammaturgia in azione.
Mutuando il format del quizzone televisivo con incursioni da avanspettacolo, sulle note di Stasera mi butto di Rochy Roberts si allestisce Dopodiché… per trasformare la morte in gioco e riaffermare il concetto di libero arbitrio. Il gioco è quello dell’oca, con le caselle che ti avvicinano o ti allontanano dall’ultima. La numero 30. Quella finale. Quella del suicidio perché la vita, malgrado i nostri sforzi e la buona volontà, è una menzogna…
Una grande cerimonia funebre dove tre antieroi della sopravvivenza quotidiana, dispersi, avviliti e prossimi al rifiuto esistenziale, colti da febbrile e tattile volontà di arrivare per primi alla casella n. 30 partecipano, ritrovando in quella bara nera un nido di speranza. In palio c’è il suicidio…
Addomestichiamo la morte, dunque. Portiamola “ad domus” nei pressi della casa ed esorcizziamone lo spettro con una risata perché nella morte e nella sua esibizione esiste sempre qualcosa di macabramente affascinante, soprattutto se questa è vissuta in modo collettivo. Distogliamo “l’uomo dalla perniciosa voglia innata di domandarsi quale senso abbia l’esistenza. Essa non ne ha alcuno…”
“Homo faber fortunae suae? Cazzate…”
Basta con l’apologia del vincente e la nevrosi del successo! Mettiamo in pratica la tecnica delle 3 D: Distrazione, Disinteresse, Disaffezione.
Ed ecco allora il vuoto, il non risolto, l’impossibilità di realizzare e di realizzarsi sia psicologicamente che sessualmente con 3 aspiranti suicidi: il laureando (Luca Mammoli), lo stagista (Andrea Panigatti), il precario (Enrico Pittaluga) e un entertainer (Graziano Sirresi) in pied-de-poule, incrocio tra un guitto e un moderno clown (senza naso rosso) che brandisce un fallo a mo’ di microfono.
Tra autoconfessioni – che possono essere continuamente reinventate nella dinamica scenica – e j’accuse, prove individuali e collettive è nel surplus di senso e nel nonsenso che si possono scoprire direzioni inedite del testo tra rimandi e citazioni colte (Hikmet, Pasolini e Gilles Deleuze), luoghi comuni e ribaltamenti di significato, tra permacoltura, resilienza e feng shui, decrescita felice e globalizzazione dei diritti in un continuo e vivace mescolarsi di registri alti e bassi.
Il laureando, lo stagista, il precario. Le loro personalità, i loro stili diversi come le loro fisionomie si misurano sulla scena e si completano nell’esaltazione del gioco comico tra paradossi e gestualità, l’assenza di un copione rigido e l’abilità di mutare le strutture dello show giocando con gli spettatori di ogni età.
Con il candore impertinente di 4 enfants terribles dall’adolescenza protratta all’infinito in questo nostro Occidente malato di senile immaturità, essi violentano la platea, profanano zone poco frequentate, si avventurano in terreni negati o rimossi, eccitano il pubblico che viene continuamente percorso da brividi, imbarazzi, rossori, risate e applausi liberatori.
L’azione, pur rimanendo circoscritta al cadre perimetrato dalle quinte nere con stendardi rossi vagamente soviet touch che scendono dall’alto, si trasforma in un inventario multiplo dei malesseri contemporanei fino alla tracimazione dello spazio scenico in platea con coinvolgimento degli spettatori che, divertiti, reggono loro il gioco facendosi “pandizzare” e lanciando palline di plastica colorate in estenuanti round.
Certo è molto più comodo mettere in atto poderosi meccanismi di rimozione che prendere coscienza dello svuotamento di senso cui oggi, tutti noi, siamo sottoposti ma spettacoli così servono a riattivare il rapporto tra linguaggio teatrale e vita reale.
Negli anni ’70 sarebbe stato teatro d’avanguardia. Oggi è uno spettacolo politicamente, impudicamente, felicemente scorretto.
Grandi.
Applausi.
Giovanna Villella