Stagione teatrale Ama Calabria, Giulio Scarpati melanconico “Misantropo”
4 min di letturaCatanzaro, 3 febbraio 2019. Ancora un appuntamento con i grandi nomi della scena teatrale italiana nell’ambito del cartellone di AMA Calabria al Teatro Comunale di Catanzaro. Ospiti della prestigiosa stagione Giulio Scarpati e Valeria Solarino protagonisti di un classico del teatro di tutti i tempi Il Misantropo di Molière per la regia di Nora Venturini.
Su una pedana, un fondale con al centro il dipinto di una dama corrucciata con una rosa che ricorda, nelle cromie e nella postura, i ritratti di Émile Vernon. Ai suoi lati due velari lattiginosi incorniciati da drappeggi baroccheggianti lasciano intravvedere, in trasparenza, i camerini degli artisti. In mezzo al perimetro scenico, che vuole rappresentare un teatrino-boudoir, una banquette con un piccolo tavolo tondo e ai lati due sgabelli. Ma il dipinto in realtà è una porta girevole che scandisce le entrate e le uscite di Celimene e nasconde sul retro un grande specchio, metafora del gioco teatrale.
È il blu polvere, in tutte le sue nuance a dominare la scena.
Su questo fondo algido, ideato da Luigi Ferrigno, si stagliano i personaggi nei coloratissimi ed evocativi costumi di Marianna Carbone che combinano dettagli d’epoca e accessori contemporanei, le belle luci di Raffaele Perin e le arie settecentesche di Marco Schiavoni che subiscono repentine accelerazioni con l’insert di sonorità house.
Nella lettura scenica di Nora Venturini che firma la regia dell’opera di Molière nella traduzione di Cesare Garboli, l’impianto drammaturgico viene attraversato da elementi di contemporaneità che riportano l’idea di un pathos diverso dentro le convenzioni del nostro tempo. Niente parrucconi e facce imbiancate, merletti e bustier per mettere a nudo l’eterno conflitto tra uomo e donna, uomo e società, ragione e cuore, apparenza e realtà.
Un lavoro di sintesi che, seppur giocato sulla sottrazione (e non sull’esemplificazione), riesce a (ri)creare il rapporto dei significati ed è reso vivo e tragico dalla lingua di Molière dove ogni parola porta in sé un senso profondo, allusivo, composito. Così la pienezza linguistica dell’opera si confronta con la parola teatrale, senza compiacimenti, ridondanze, deformanti birignao e il linguaggio risulta immediatamente credibile anche in virtù dell’innesto di accenti dialettali calabresi che hanno il sapore di un delizioso, irriverente sberleffo.
L’interpretazione di tutti gli attori scorre sulle righe di un registro alto.
Grande Giulio Scarpati, Alceste dolente e melanconico percorso, a tratti, da una follia ben amministrata in contrasto alle calme e sagge certezze di Filinto a cui contrappone attimi di stupore e di meraviglia su una vita che egli non comprende. Il suo amore per Celimene è potente e insensato pur nella sua logica draconiana e nel suo corrosivo intimismo. Alceste monologa, declama, bisbiglia, si torce, tuona, mormora, borboglia, prega… Ma ogni sua battuta, pronunciata con rigore e misura senza, tuttavia, rinunciare a quella sottile linea comica connaturata nel personaggio, traduce il dolore insopportabile di un uomo che non ha trovato il suo posto nel mondo perché quel mondo pieno di vanità e di ipocrisie lo disgusta. Nella sua abiura finale, in quel gioco estremo di seduzione e di crudeltà, egli diventa vittima e carnefice di sé stesso mentre il pesante sipario blu scende come una ghigliottina a separarlo da Celimene. Egli ha scelto la solitudine come compagna.
Vibrante ed elegante la Célimène di Valeria Solarino adombrata da un velo di tristezza. Vedova, ma ancora giovane e bella, ella ama Alceste però non vuole rinunciare al sottile piacere del corteggiamento che le riservano gli altri spasimanti. Vanità? Insicurezza? Paura della solitudine? È solo un gioco, che sa condurre con leggerezza, intelligenza e ironia limitandosi a “spargere il suo miele su tutti”. Quella leggerezza richiesta dalle convenzioni del tempo alle quali ella si adegua dimostrando di “saper vivere”. Nel suo monologo finale rivendica la sua dignità di donna tout court, non oggetto d’amore ma “persona” da amare e, nel rifiuto di quell’amore ossessivo e totalizzante che vorrebbe annullarla e rinchiuderla sotto una campana di vetro come una statua da adorare, ella sceglie la vita.
Filinto, il lucido, ragionevole, amabile Filinto, gentile con il mondo e paziente con Alceste è mirabilmente reso da Blas Roca Rey che carica il personaggio di umanità.
Bravissimo Matteo Cirillo che ci regala, accentuandone con calibrata ironia l’elemento esibizionistico, un Oronte ridicolo e tenero e poi indossa, con gran disinvoltura, i panni di Basco e di Du Bois.
Sobria Federica Zacchia che vena la sua Eliante di pudica malinconia in un romantico vestito di organza color crema da demoiselle d’honneur.
Esilaranti Matteo Cecchi e Mauro Lamanna nei ruoli di Clitandro e Acaste, due personaggi che, a dispetto dei loro blasoni, evidenziano un côté buffonesco. Si presentano in scena come il Gatto e la Volpe di Pinocchio, sbirciando dai pesanti velari e indossando occhiali da sole.
Eccellente l’Arsinoè di Anna Ferraioli che costruisce un personaggio perfettamente bilanciato tra la bigotta e l’aspirante peccatrice infagottata in un castissimo robe manteau color pachiderma che lascia intravvedere un provocante décolleté in pizzo nero.
Un allestimento rigoroso questo Misantropo di Nora Venturini che coglie registicamente la fondamentale universalità di un testo complesso e moderno insieme, con i suoi chiaroscuri e con i suoi personaggi che si dibattono tra le spire di una vorticosa ambivalenza.
Uno spettacolo da godere, meditare e applaudire.
Giovanna Villella