Strage di Capaci: il ricordo della politica e società civile
10 min di letturaOggi 23 maggio ricorre il trentennale della strage di Capaci. Il ricordo della politica e della società civile
Quanto scrive su Twitter Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria
“30 anni dalla strage di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il ricordo di quella tragedia non si spegne. Sia sempre un monito contro le mafie e per la legalità”.
Quanto scrive in una nota Amalia Bruni, leader dell’opposizione in Consiglio regionale
A trent’anni di distanza, il ricordo della strage di Capaci non è solo un anniversario più importante degli altri che si ripetono a volte con una certa stanchezza, ogni dodici mesi. Deve essere un motivo per riflettere con la massima attenzione su quanto accadde il 23 maggio 1992 nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, per cercare di capire meglio, trovando qualche risposta in più. Ad esempio su tutte le responsabilità precise della mafia per quell’attentato, che ha inciso in maniera così profonda sulla storia dell’Italia repubblicana; ma anche su eventuali responsabilità dello Stato, della politica, della magistratura, sul clima di quegli anni, sugli eventi che hanno preceduto e seguìto la strage in cui morirono Giovanni Falcone sua moglie Francesca Morvillo e i tre poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. La mafia fece esplodere la bomba. Come i neofascisti furono gli autori degli attentati che hanno provocato morti, dolori e hanno insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1974, da piazza Fontana a piazza della Loggia, e Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dalle Brigate rosse. Ma non sappiamo ancora tutto, ci sono da chiarire molti aspetti collaterali, sugli ambienti e sui movimenti che ruotarono attorno a quelle responsabilità e che cosa rese possibile quei delitti, quali complicità ci furono prima e quali coperture si misero in atto dopo, e per conto di chi. Sia per la strage di Capaci ma ancor di più per quella di via D’Amelio, che appena due mesi dopo massacrò l’esistenza di Paolo Borsellino insieme ai cinque agenti della sua scorta. Di e su Giovanni Falcone si è scritto tanto e tanto si continuerà a scrivere, a me piace ricordare in particolare una sua frase che in tutti questi anni ho sempre tenuto ben presente: “Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Ecco io vorrei che le sue idee e le sue tensioni morali continuassero a camminare sulle gambe di tutti noi”.
Quanto scrive il Commissario Regionale della Lega, Avv. Giacomo Francesco Saccomanno
Sono trascorsi trent’anni dalla strage di Capaci, ma l’insegnamento di Giovanni Falcone sembra non sia servito a nulla! La strage del 23 maggio 1992 ove persero la vita la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, sembra una realtà lontana e non sembra che i fatti che si sono susseguiti abbiano veramente aperto quello spartiacque che avrebbe dovuto rafforzare ancor più la lotta contro le mafie. Diceva Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Tutto vero! Tanto si è fatto nel tempo per combattere la criminalità organizzata che, dopo il periodo buio delle bombe e degli attentati, ha iniziato un nuovo percorso più sotterraneo e pericoloso: l’inserimento ed il condizionamento delle istituzioni per aumentare potere ed affari, coinvolgendo tutti con il solo fine dello sfruttamento al massimo delle risorse. Tutto chiaro, tutto ben delineato. Ma, quello che lascia molto perplessi è il sistema giustizia che non sembra funzionare adeguatamente. Non vi è uniformità di azione. Tutto è lasciato sulle gambe di pochi uomini che hanno e stanno sacrificando la propria vita e quella delle famiglie per portare avanti una battaglia vera e senza se e senza ma. Ma,non è il sistema che combatte. Sono i singoli, con la loro disponibilità, sensibilità, moralità, coerenza, capacità, volontà! Il sistema appare, invece, molto condizionato, infiltrato, non reattivo. Lontano dalle bombe, dagli attentati, dalle stragi, a distanza di trent’anni si deve registrare un silenzio devastante che ha consentito alla criminalità organizzata di proseguire nella sua azione e di inserirsi anche nei gangli vitali delle istituzioni. Giovanni Falcone parlava di idee che avrebbero dovuto camminare sulle gambe degli uomini. Ma, quanti uomini oggi hanno idee e possono ritenersi veramente liberi? Le elezioni del nuovo Procuratore Nazionale della DDA è la riprova di come i condizionamenti ancora esistono e sono molto forti anche dinnanzi a scelte così importanti. Ha affermato Giuseppe Marra (Autonomia e Indipendenza), componente del CSM, che “Gratteri è il simbolo della lotta alla criminalità organizzata, come si evidenzia nel processo “Rinascita Scott” che si sta svolgendo contro le cosche della ‘ndrangheta. Gratteri è anche il simbolo dei magistrati che non hanno alcuna relazione con la politica. E questo si può vedere nelle interviste rilasciate contro le recenti riforme della giustizia. Ed è il simbolo anche di quei colleghi che non sono mai stati iscritti alle correnti della magistratura”. Infine, non si può non richiamare, tra l’altro, l’intervento del consigliere laico Stefano Cavanna, in quota Lega: “La premessa del primo presidente Curzio mi hanno un po’ turbato. Dire che bisogna supportare con il massimo dei voti il candidato che sarà eletto, mi fa pensare che già si sa chi sia il vincitore. Non mi è mai piaciuto il conformismo e non mi piace neanche in questo caso. Questa è una scelta di due divisioni diverse di questo ufficio, perché dalle audizioni sono emersi due modi di operare in modo opposto. È proprio per questo è indispensabile partecipare e votare i referendum non potendo essere il CSM gestito da gruppi che manifestano o fanno pensare a posizioni partitiche contrapposte!
Quanto scrivono Pino Masciari, imprenditore e testimone di giustizia e Giancarlo Costabile, ricercatore e docente di Storia dell’educazione alla democrazia e alla legalità all’Università della Calabria
Capaci, trent’anni dopo. Capaci di memoria ma soprattutto di verità e resistenza. Sì, perché il problema italiano nella lotta alle mafie (e non solo, invero) è attraversato da queste due parole. Le stragi di mafia del ’92 non sono comprensibili pienamente sul piano storico-politico se restiamo ancorati al tradizionale domicilio criminale per interpretarne le strategie di potere. Ha ragione Isaia Sales quando scrive nel suo importante testo Storia dell’Italia mafiosa che il crimine organizzato del nostro Paese è innanzitutto un linguaggio di relazioni tra élite che gestiscono il potere a tutti i livelli del vivere civile, sia locale che nazionale. Le mafie italiane sono parte fondamentale della narrazione di dominio con cui le classi dirigenti hanno sempre scandito il loro vocabolario nell’attività di governo dei nostri territori. Falcone e Borsellino sono stati i magistrati più combattuti non solo all’interno del mondo delle toghe italiane degli anni Ottanta del Novecento ma anche isolati dal sistema Paese che non ha saputo cogliere, né in quel periodo né dopo, la straordinaria densità investigativa e interpretativa del loro lavoro. I due magistrati siciliani – dopo le inchieste sociologiche di Danilo Dolci e quelle giornalistiche di Pippo Fava, senza dimenticare le analisi di Pio La Torre sui patrimoni delle mafie – approfondiscono la struttura e la (profonda) vitalità sociale del potere mafioso che trascende il consueto radicamento del fenomeno nell’ambito dei fatti criminali e della violenza urbana organizzata. Trent’anni dopo Capaci e via d’Amelio, prevale ancora la retorica e l’ipocrisia nel ricordare queste monumentali biografie di resistenza: l’esigenza è normalizzare la loro storia, narcotizzarne il potenziale rivoluzionario delle intuizioni e della dignità istituzionale che li accompagna fino all’ultimo istante di vita. Sono tre decenni che legittimiamo una lettura parziale del ’92, amputando la verità sui mandanti di quel terribile rosario di morte tra il 23 maggio e il 19 luglio. Dobbiamo avere il coraggio di affermare questo nostro diritto collettivo alla rabbia e non avere paura di chiedere verità e giustizia su quei mesi sporcati dal sangue innocente dei giusti. La caratteristica del potere in Italia è la frantumazione dell’autorità dello Stato in svariate statualità parallele (ad esempio, le mafie e la massoneria deviata) che si costituiscono in microstati all’interno dei quali viene amministrata la quotidianità di intere realtà territoriali non più circoscritte soltanto a Sud di Roma, come le indagini giudiziarie degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato. Falcone e Borsellino comprendono (e vivono con disagio e dolore) questa specificità del nostro Stato che ha fatto, e per certi versi continua a fare, del nostro Paese, in Occidente e nel mondo, il vero laboratorio politico di concetti chiave quali democrazia criminale, capitalismo mafioso e borghesia armata.
È arrivato il momento di liquidare la retorica del piagnisteo, le celebrazioni asfittiche, le liturgie danzanti, tutte espressioni di una pedagogia del compromesso che Falcone e Borsellino hanno ostinatamente combattuto in vita per ripensare in modo radicale l’antimafia, a partire dalla (doverosa) ricerca della verità sui mandanti occulti degli omicidi del ’92. L’antimafia, oggi, non può che porsi dentro una pedagogia del cambiamento sociale che traduca nella prassi le idealità dello Stato della Costituzione, sfregiato in tutti questi decenni e sostanzialmente in minoranza nel nostro Paese. È una verità amara, scomoda, urticante ma che non si può più sottacere. Farlo, significherebbe essere complici di chi ha ucciso Falcone e Borsellino per poi ipocritamente commemorarli. I morti non fanno paura quando viene anestetizzata la loro storia, espungendone i luoghi più significativi del loro pensiero-azione. Diciamola tutta con chiarezza: fa comodo a uno Stato corrotto (e alla falsa coscienza popolare che ha subito la sterilizzazione della memoria) pensare che i Corleonesi di Riina e Provenzano abbiano prodotto autonomamente la mattanza del ’92. Le democrazie criminali si reggono sulla manipolazione della memoria, della coscienza e dell’educazione, legittimando in tal modo il loro disordine etico come (necessario) ordine politico-sociale. Noi non intendiamo piegarci a questo racconto del passato e del presente, così come non intendiamo accettare passivamente la sconfitta dello Stato della Costituzione. L’antimafia è un modo di intendere la vita perché è costruzione di una cultura militante in grado di coniugare la ricerca della verità (come metodo pedagogico dinanzi al passato e al presente) con la pratica della giustizia sociale (il futuro quale opportunità di scoperta e tutela di nuovi diritti di prossimità). Trent’anni dopo, ripartiamo da Capaci perché siamo capaci di memoria, verità e resistenza. Capaci di umanità. Capaci di contrastare le mafie e il loro sistema di relazioni con gli apparati corrotti del nostro Stato. Capaci, in definitiva, di continuare quella lotta, trent’anni dopo. Per Falcone e Borsellino. Per i nostri caduti. Per lo Stato della Costituzione.
Il ricordo del Movimento Lamezia Bene Comune
Nel trentesimo anniversario della strage di Capaci e alla vigilia dell’anniversario della barbara uccisione dei nostri concittadini Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, il dovere civile e morale della memoria coincide con un rinnovato impegno quotidiano, contro ogni forma di mafia e mafiosità, per liberare in maniera definitiva la nostra città, la nostra Regione e il nostro Paese dalle catene del condizionamento mafioso, dalla zona grigia che avvelena la democrazia e le istituzioni.
L’Italia ha il dovere di ricordare, Lamezia ha il dovere di ricordare! Da quest’anno, su sollecitazione dell’Associazione Antiracket Lamezia Onlus (ALA), della Fondazione Trame e di A.G.E.S.C.I. Zona Reventino, con il sostegno di ARCI Servizio Civile, della Parrocchia del Carmine di Lamezia, del Masci zona Reventino e dell’Associazione Comunità Progetto Sud, e di tantissimi cittadini che hanno sottoscritto la petizione, il 24 maggio è la giornata della memoria di tutte le vittime lametine di ‘ndrangheta.
La nostra città ha pagato un prezzo altissimo alla ‘ndrangheta! Guai a noi dimenticarlo: vite umane e famiglie spezzate, imprenditori soffocati dal pizzo e costretti a chiudere, quel cappio sull’economia e sulla società che continua ad opprimere le nostre comunità. Lamezia ha conosciuto tre scioglimenti del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.
Rendere onore alla memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e agli uomini della loro scorta, ai nostri concittadini Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte e a tutte le vittime di ‘ndrangheta significa scegliere ogni giorno da che parte stare. Senza ambiguità e senza rimozioni.
Non c’è memoria e non c’è futuro senza verità. Per gli anni delle stragi di mafia in Italia, sulle quali pesano come macigni ancora tante ombre, e per gli anni bui che la nostra città ha conosciuto. A nome di tanti cittadini lametini, chiediamo al procuratore Gratteri che, sulla barbara uccisione di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, si arrivi finalmente a fare chiarezza e giustizia. Lo dobbiamo alle loro famiglie, che abbracciamo e ringraziamo per la dignità e il senso civile con cui in questi anni non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia. Lo dobbiamo a tutti i cittadini perbene di Lamezia che continuano a chiedere sia fatta luce su quella pagina nera della storia della nostra comunità, a tutti i lametino che ogni giorno continuano a combattere mafia e mafiosità con il senso del dovere quotidiano e l’amore alla comunità. Quegli stessi valori che contraddistinguevano Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte.