‘The Act of seeing with one’s own eyes’ di Stan Brakhage
3 min di letturaSTRADE PERDUTE VINTAGE
Vista la penuria di prodotti cinematografici notevoli nell’estate italiana, STRADE PERDUTE quest’estate si sdoppia, e diventa “vintage” e “serial”.
Perché vuole osservare da vicino i serial tv, una nuovissima (o quasi…) forma dell’immaginario che sta soppiantando, per abilità espressive e significati sociali, il Grande Schermo; e insieme ripercorrere i sentieri dimenticati di opere gloriose del passato del Grande Schermo, oggi colpevolmente dimenticate nel mare magnum dell’isterica proposta contemporanea. Tutto questo in attesa del solito appuntamento “Lagunare”, in esclusiva a settembre, dalla Mostra del Cinema di Venezia.
Iniziamo da Stan Brakhage.
In greco, “autopsia” vuol dire “vedere con i propri occhi” (in inglese, letteralmente, seeing with one own’s eyes): e basta questo a suggerire l’impianto narrativo del film -anzi, tecnicamente è un medio metraggio- di Stan Brakhage, autore del documentario in questione che rappresenta (insieme al Salò- O Le 120 Giornate di Sodoma di Pasolini- parere ovviamente personalissimo di chi scrive) una delle opere cinematografiche più disturbanti e insostenibili della storia del cinema. La pellicola, girata nel 1971 in un obitorio di Pittsburgh, trasporta in una giornata tipo all’interno dell’Istituto, completa di misurazioni con righello, rivoltamenti, tagli, aperture ed estrazioni su cadaveri di esseri umani reali, e ovviamente deceduti. Cadaveri sui quali l’obiettivo imparziale di Brakhage ostenta per una mezz’ora abbondante di vera e propria esplorazione della materia umana. L’atto di vedere diventa una prova di resistenza soprattutto per l’occhio dello spettatore, che deve osservare la pelle arrotolata sul viso mentre la sega circolare traccia solchi attorno alla scatola cranica con mani veloci e sicure, evidentemente abituate alla pratica giornaliera. Il tutto in una deriva di anatomia umana che pende come un serpente sugli occhi di chi guarda, letteralmente ipnotizzato da uno spettacolo ributtante ma da cui non si osa distogliere lo sguardo.
Chi non fosse avvezzo all’opera di Stan Brakhage troverà comunque senz’altro difficile, se non impossibile, penetrare nell’immaginario del regista statunitense, uno degli autori sperimentali più audaci e interessanti della Storia. Perché fondamentalmente Brakhage non ha un immaginario, o, se ce l’ha, fa di tutto per non imprimerlo nelle sue pellicole. The Act Of Seeing With One’s Eyes stupisce per la freddezza, il disincanto, ma soprattutto il radicale realismo che gli fa da perno e che costituisce il grimaldello per interpretare la pellicola, ma rimane un assunto di base: non c’è niente da interpretare. Solo da vedere.
L’unica interpretazione che affiora alla mente è che non ci sia nulla da interpretare, perché il realismo satura il film scavalcando così l’oscenità ontologica attraverso la figurazione non della durata della morte (il morire propriamente detto) ma della sua attualità (la morte stessa), che strappa la persona al tempo e la riconduce in un limbo in cui può rivivere (“la morte non è che la vittoria del tempo: fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere vuol dire strapparlo al flusso della durata: e quindi ricondurlo alla vita”). Il limbo è ovviamente lo schermo cinematografico, il quale realizza The Act Of Seeing With One’S Own Eyes come una sorta di trionfo sperimentale della vita.
Per i coraggiosi, il link di youtube:
https://www.youtube.com/watch?v=eMPk_CAaPhU