Trame10. Sanità, ambiente e follia le tematiche dell’ultima serata del Festival
11 min di letturaLamezia Terme, 5 settembre 2021. Ultimi appuntamenti con Trame10. Festival dei libri sulle mafie, con la direzione artistica di Giovanni Tizian. La sanità ai tempi della pandemia, la responsabilità delle lobby del petrolio nel cambiamento climatico, i legami tra follia, crimini e politica sono gli argomenti trattati dagli ospiti di questa sera.
Nel primo incontro, moderato da Elena Stramentinoli, i giornalisti Francesca Nava, Arcangelo Badolati e Attilio Sabato discutono dell’emergenza sanitaria da Covid-19 in Calabria e in Lombardia. Due regioni, due sistemi sanitari a confronto. L’eccellenza lombarda che durante la pandemia da Covid-19 mostra i propri limiti e la sanità calabrese, commissariata da 11 anni, che continua nel suo percorso di inefficienza e corruzione, amplificato dall’emergenza. Francesca Nava, autrice del libro Il focolaio, edito da Laterza, ripercorre cronologicamente tutte le fasi della pandemia a partire dal 23 febbraio 2020 quando l’ospedale di Azzano Lombardo, in provincia di Bergamo, è già un lazzaretto però nessuno ne parla. C’è una difficoltà iniziale a capire la reale portata di un virus sconosciuto, e c’è la responsabilità politica, a tutti i livelli, che non riesce a dare risposte chiare e a prendere decisioni importanti. Mentre il virus galoppa, a Milano non si rinuncia all’aperitivo e le filiere produttive, anche non essenziali, continuano le proprie attività con la conseguente circolazione di migliaia di lavoratori. Si dispone, intanto, la chiusura di diversi comuni del Nord e si istituisce la zona rossa in Lombardia fino al DPCM del 9 marzo 2020 che impone il lockdown per l’intero Paese. La Lombardia è la regione più colpita e il suo sistema sanitario comincia a vacillare perché non riesce ad accogliere tutti i pazienti che hanno contratto il virus. Gli ospedali sono al collasso e mostrano il fallimento di una politica ospedalocentrica che ha privilegiato soprattutto il settore privato non riuscendo ad investire in prevenzione, cure domiciliari e medicina territoriale di prossimità. Durante la prima ondata pandemica, la Calabria viene interessata in modo marginale. I casi da infezione da Coronavirus sono contenuti. Arcangelo Badolati e Attilio Sabato ci restituiscono una fotografia agghiacciante ma estremamente realistica della sanità calabrese. La prima ondata che, quasi per miracolo, risparmia la Calabria spinge il governo regionale a dichiarare la nostra regione covid-free per attirare turisti. Ma già a settembre si intravvedono i primi, nefasti risultati con un aumento esponenziale del numero dei contagiati e gli ospedali che non riescono a rispondere a tutte le richieste di ricovero. Inoltre, mancano i dispositivi di sicurezza, salta il sistema di tracciamento e i tamponi non vengono processati perché in tutta la regione sono attivi solo tre laboratori che non riescono a far fronte alla richiesta dei cittadini. Da qui i ritardi nell’esito dei tamponi e il conseguente allungamento della quarantena delle persone costrette a stare chiuse in casa. La Calabria diventa zona rossa non tanto per il numero dei contagiati quanto per l’inefficienza del suo sistema sanitario. Il governatore f.f. promette l’aumento di posti letto in terapia intensiva, il reclutamento di medici e infermieri, e l’istituzione degli USCA. Ma nulla di tutto questo avviene o, meglio, viene realizzato solo in minima parte e, mentre i nuovi ospedali sparsi sul territorio regionale e forniti di tutte le strumentazioni si preferisce tenerli chiusi, si decide di montare un ospedale da campo e la Protezione Civile installa delle tende per accogliere i pazienti colpiti dal virus in attesa di essere ricoverati. Intanto scoppia lo scandalo del commissario alla Sanità Saverio Cotticelli e inizia la lotteria delle nomine fino alla designazione di Longo. Ma la débâcle della sanità calabrese continua ed è, attualmente, in pieno svolgimento.
Il tema del secondo incontro è centrato sulla responsabilità della politica nella tutela dell’ambiente. Il Generale Sergio Costa, già ministro dell’Ambiente nel primo Governo Conte e il giornalista Stefano Vergine autore, insieme a Marco Grasso, del libro Tutte le colpe dei petrolieri. Come le grandi compagnie ci hanno portato sull’orlo del collasso climatico (Piemme edizioni) ne parlano con la giornalista Dominella Trunfio. Il Generale Costa afferma che esiste un percorso trasparente e corretto in grado di salvaguardare l’ambiente, la salute pubblica e l’attività imprenditoriale. Durante il suo mandato rivendica di essere stato il primo ministro italiano a non autorizzare nuove trivellazioni, ad esigere l’atto della ricerca ai fini estrattivi e il documento sulla gestione ambientale dei pozzi su terraferma e off shore e ad introdurre, come atto amministrativo, lo studio dell’impatto ambientale per verificare le conseguenze delle estrazioni in prossimità dei centri abitati. Alla luce di queste richieste le domande di nuove estrazioni sono crollate a riprova del fatto che, in precedenza, l’attenzione in materia aveva avuto maglie troppo larghe. Stefano Vergine, prendendo spunto dalla definizione di greenwashing ovvero quella strategia di comunicazione utilizzata dalle aziende che presentano come ecosostenibili le proprie attività cercando di occultarne le conseguenze negative sull’ambiente, inquadra la responsabilità politica delle grandi compagnie petrolifere che già dal 1957, a seguito degli studi realizzati dai loro scienziati, sanno che le loro attività hanno conseguenze negative sul cambiamento climatico. Dal 1988 ad oggi sono stati spesi 33 milioni di dollari da società americane per negare il nesso tra attività umane e cambiamenti climatici. Ancora oggi c’è una parte della stampa internazionale che porta avanti questa tesi negazionista. Un atteggiamento irresponsabile che ha fatto perdere 40 anni di tempo per effettuare la transizione ecologica. Infatti, il passaggio dalle energie fossili a quelle ecologiche non è né breve né semplice. Inoltre, oggi, si pone un altro problema perché l’Italia sta pianificando le opere per i gasdotti al fine di promuovere l’uso del gas metano che è un gas serra più potente e dannoso della CO2. Il Generale Costa pone l’accento sulla responsabilità morale per il ritardo di questa transizione che si compirà solo nel 2050 e nella quale non si parla di emissioni green ma di bilanciamento che è cosa ben diversa dall’obiettivo “emissioni zero”. Il percorso è lungo e il business è appetitoso perché ci sono molti incentivi statali. Ma, fatta eccezione per i paesi ricchi che fanno parte del G20, ci sono altri paesi come il Sud America e l’Africa che sono molto poveri e quindi permeabili al crimine. Bisogna uscire dal provincialismo italiano e rendersi conto che il sistema è globale anche nella criminalità pur rilevando che in moltissimi paesi non ci sono meccanismi di tutela sulla criminalità come in Italia, la quale può vantare uno dei sistemi normativi più completi e avanzati . Un pensiero anche sul nucleare, tirato recentemente in ballo dal ministro Gingolani nonostante il popolo italiano si sia già espresso in un referendum abrogativo del 2011, con cui sono state abolite alcune disposizioni concepite per agevolare l’insediamento delle centrali nucleari. E poi il ruolo fondamentale dell’associazionismo ambientalistico supportato, oggi, da grandi scienziati. Una risorsa importante perché serve da stimolo così come i comitati dei cittadini che sono promotori e portatori di proposte intelligenti, di idee e non di ideologie. Qui un breve ma significativo intervento di Dina Caligiuri, attivista di Lamezia rifiuti zero, una associazione locale che aderisce ad una rete globale. La Caligiuri focalizza l’attenzione sul problema dello smaltimento dei rifiuti in Calabria e sull’inquinamento del mare soprattutto lungo la costa lametina, a causa dei problemi con gli impianti di depurazione rilevando la totale assenza della politica sia a livello regionale sia a livello di amministratori locali laddove le attività di denuncia, di segnalazione e di protesta sono esclusivamente demandate alle associazioni ambientaliste che operano sul territorio. Il Generale Costa conclude con una nota di ottimismo auspicando una rivoluzione verde che sarebbe ripagata con la creazione di posti di lavoro. Una transizione ecologica ragionevole, a medio e a lungo termine per dare la possibilità alle università di formare nuovi profili professionali. Nel frattempo, ciascuno di noi vi può contribuire mettendo in pratica piccoli gesti quotidiani.
Il terzo è ultimo incontro vede lo psichiatra Corrado De Rosa, autore del libro Italian Psycho. La follia tra crimini, ideologia e politica (Edizioni Minimum Fax), in un interessante monologo durante il quale la follia è indagata come strumento di repressione politica, di negoziazione, di potere, di delegittimazione.
La narrazione prende l’abbrivio dalla storia dei dissidenti russi ricoverati negli ospedali psichiatrici perché, dopo la morte di Stalin, ci si rende conto che i campi di internamento hanno costi elevati e che le rivolte vanno sedate. Inoltre, Kruscev aveva dichiarato che “la società socialista è una società senza conflitti, chi è contro la società socialista non può che essere matto”. Così, c’è tutto un gruppo di psichiatri che teorizza una serie di malattie e di diagnosi fittizie, come la schizofrenia torbida che, di fatto, riconoscono la patologia da una apparente normalità per dichiarare malate di mente persone sane. In Italia viene utilizzata la stessa pratica di internamento nei manicomi durante il regime fascista. Il primo firmatario del Manifesto sulla Razza è Arturo Donaggio, presidente della Società Italiana di Psichiatria mentre gli psichiatri del Terzo Reich partecipano con entusiasmo allo sterminio dei disabili. Per venire a tempi più recenti, in Sud Africa gli psichiatri offrono il loro supporto all’Apartheid e in America la Società di psichiatria vieta ai propri membri di partecipare agli interrogatori nel carcere di Guantanamo mentre in Romania i dissidenti sono caricati su un autobus per strada e poi internati. Radovan Karadžić, teorico del nazionalismo serbo, prima di diventare un criminale di guerra era uno psichiatra. È lui a teorizzare lo stupro di massa come strumento di annientamento psicologico delle vittime nei villaggi musulmani, facendo leva su due aspetti fondamentali della cultura musulmana: la sessualità e l’idea che il capofamiglia non potesse proteggere le persone più fragili. Questa è la follia intesa come strumento di repressione politica.
In merito al rapporto tra follia e politica, in Italia la follia diventa, in tempi recenti, lo strumento di negoziazione nelle trattative tra Stato e mafia. Negli Anni ‘80 l’assessore democristiano Ciro Cirillo viene sequestrato dalle Brigate Rosse, lo Stato non riesce a negoziare la sua liberazione ma non può permettere che Cirillo muoia perché è ancora troppo recente l’assassinio di Moro, chiede allora aiuto al boss Raffaele Cutolo che sta scontando la propria pena in carcere. Cirillo viene liberato grazie all’intercessione di Cutolo il quale chiede in cambio armi, soldi e un pacchetto di perizie psichiatriche compiacenti. Cutolo diventerà, così, il finto pazzo per eccellenza mentre, durante due processi di mafia che si svolgono in sordina, lontano dai riflettori mediatici, gli avvocati di Riina e Provenzano chiedono per i loro assistiti una diagnosi di demenza contando sul fatto che la demenza è una malattia irreversibile. Tutti i boss di mafia hanno utilizzato lo strumento della perizia psichiatrica per eludere i processi. La follia è un ottimo antidoto per evitare il carcere e, inoltre, la follia, attraverso una perizia psichiatrica accomodata, può far ottenere l’infermità, la seminfermità o la sospensione dei processi quindi proscioglimento, riduzione della pena e prescrizione. C’è stato, persino, un momento della storia in cui il meccanismo dei finti matti diventa fuori controllo. Alla fine degli Anni ’70, mentre la psichiatria ufficiale cerca di varare una legge per far chiudere i manicomi (Legge Basaglia) i boss di mafia si rendono conto che la follia può essere uno strumento utile per ottenere l’impunità. Ci sono state anche le cosiddette diagnosi spettacolarizzate come il raptus e lo sdoppiamento di personalità che, tuttavia, sono di una rarità tale da essere messe in dubbio persino dalla comunità scientifica. Oggi, l’evoluzione degli strumenti diagnostici e lo studio della personalità in sinergia con altre discipline come le neuroscienze rende difficile giocarsi la carta della follia. Ne consegue che moltissimi boss, grazie ad avvocati e medici compiacenti, ricorrano alle diagnosi di anoressia per uscire dal carcere.
Poi c’è la delegittimazione a mezzo di follia. È il caso del delitto Impastato che, in un primo momento, si cerca di far passare come il suicidio di un matto, fortemente depresso, all’apice del fallimento politico che decide di togliersi la vita in modo eclatante. Mentre la follia diventa protagonista involontaria durante i 55 giorni del sequestro Moro. A poche ore dal rapimento, Cossiga convoca un comitato di esperti tra cui psicologi, psichiatri, criminologi, grafologi ed esperti di enigmistica per cercare di capire, attraverso i comunicati inviati dalle BR, le condizioni di salute di Moro. Dopo qualche giorno, il comitato di esperti si esprime dicendo che Moro non è più presente a sé stesso, soffre della sindrome di Stoccolma. Una diagnosi che sarebbe tornata utile qualora Moro, uscito vivo dal sequestro, avesse fatto dichiarazioni imbarazzanti per i suoi compagni di partito che avrebbero potuto delegittimarlo servendosi della diagnosi formulata dal comitato di esperti.
Si può anche delegittimare sé stessi utilizzando la follia. Il caso più eclatante è quello di Ali Ağca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II. A poche ore dal suo arresto, uno psichiatra turco dichiara a tutte le agenzie di stampa più importanti del mondo che Ağca è pazzo. Nella prima parte processuale, il suo avvocato richiama le tesi dello psichiatra turco e Ağca, volgendo a proprio favore la diagnosi di follia, si finge pazzo. Quando il papa si reca a Rebibbia per fargli visita, Ağca è disperato. Ma la sua disperazione ha una chiara matrice narcisistica, deriva dal suo fallimento e non dal pentimento. Egli non può percepirsi come qualcuno che sbaglia perché in questo modo si infrange il suo sogno di gloria. Gloria che diventerà la leva motivazionale dell’Isis per reclutare gli attentatori.
De Rosa fa poi un breve excursus sull’immagine letterario/mediatica degli psichiatri da Lombroso a Hannibal Lecter a Teleborian della saga di Stieg Larsson, psichiatra cerniera tra mondo legale e illegale e che nella realtà è perfettamente incarnato da Aldo Semerari, uno dei più importanti psichiatri della storia recente e ideologo di Ordine Nuovo. E ancora un accenno alla follia nel mondo eversivo italiano con gli estremisti neri che utilizzano molto la malattia mentale per ottenere benefici giudiziari sia perché si possono rivolgere a psichiatri che ne condividono l’ideologia sia perché, essendo di estrazione sociale elevata, possono permettersi consulenze psichiatriche mentre, nel mondo delle Brigate Rosse vi si ricorre meno, in quanto prevale l’idea che la lotta armata non sia negoziabile.
Lo stesso atteggiamento delle Brigate Rosse nei confronti delle perizie psichiatriche viene adottato in Norvegia dall’estremista di destra Anders Behring Breivik che il 22 luglio 2011 uccide 77 persone. Durante il processo rifiuta qualsiasi beneficio che potrebbe derivare da una perizia di infermità mentale perché rivendica la sua azione come politica e non come il gesto folle di un pazzo.
Un viaggio complesso e affascinante, quello di Corrado De Rosa, ricco di riferimenti e rimandi incrociati che cerca di stabilire una linea di demarcazione tra la malattia o il disturbo mentale clinicamente rilevante e il concetto di follia utilizzato come strumento di negoziazione o di potere quando si interfaccia con la violenza, la criminalità e la politica.
Giovanna Villella