U gabbu ‘ncappa
2 min di letturaProprio vero: «‘u gabbu trasi ‘nta casa di gabbulìari»
Prendendo spunto da Ippolita Luzzo, blogger lametina nonché autrice di Pezzi, avvio una piccola considerazione proverbiale, sperando di tracciarne non solo la letterarietà ma anche il suo significato più immediato.
Vera è un’ascendenza trecentesca: «se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona» (Dante), «gabbando il domandò se lo ’mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli altri uomini conceduto» (Boccaccio).
Ci verrebbe da dire, sulla falsariga di questa tradizione, che è un’espressione epica e novellistica, ragion per cui è rimasta così incisiva nella memoria corale del nostro popolo.
Per quanto mi riguarda, poi, benché l’etimologia corrente sembri evidenziare uno stretto rapporto col francese antico «gab» beffa, a sua volta dal nordico antico «gabb» burla, ritengo non escludere né un’origine araba «chabba», né tantomeno quella inglese di «gab», cicalare.
Non mi fa strano, a dirla con Carlo Verdone, accostare a tutti questi derivativi la parola italiana di gabbia, se non altro per ricostruire idealmente la prigione di quanti, dopo averne dette di tutti colori, magari con una lingua chilometrica da farci passare l’Autostrada del Sole, si ritrovano ingabbiati nelle stesse situazioni criticate, il che è come dire «di ciò di cui ti sarai fatto meraviglia poi ti capiterà».
Quindi, attenzione a chi si atteggia da gabbamondo, perché il mappamondo conta tanti gabbati.
Ringrazio ancora il regno di Ippolita, sennò che si dice che «avuta la grazia, gabbato lo santo?» Ahahah
Prof. Francesco Polopoli