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«‘U vurdu ‘un cridi llu dijunu!»

3 min di lettura

«L’ingordo non tiene conto di chi è digiuno!»: un vecchio adagio che si usa per significare che non può comprendere i languori dello stomaco chi è abituato ai bagordi e all’abbondanza

Un corrispondente autoctono potrebbe essere «ventre satollo non ricorda il digiuno» o il più letterario «‘l satollo non crede al digiuno».

Premesso che «vivere de vento quemquam non posse memento!» (della serie nessuno «campa d’aria», per darne una cursoria traduzione), voglio solo limitarmi qui a qualche considerazione paremiologica per riabilitare la continenza alimentare, senza ricorrere ai fioretti spirituali nel recinto delle mie argomentazioni.

«Ex ventre crasso tenuem sensum non nasci», «da un ventre grasso non scaturisce una fine sensibilità» era detto nell’antichità: la massima, tramandata da Orazio (Sat. 2, 2, vv. 77-79), Seneca (Ep. 15, 3) e Plinio (Naturalis Historia, 11, 79, 200), era ritenuta verità di vangelo fino all’età cristiana.

Da qui le riprese nella letteratura latina medievale (famoso è il motto monastico «plenus venter non studet libenter», «una pancia piena non studia volentieri»), con una fortuna posteriore che ha investito, successivamente, mezza Europa: in italiano «il ventre pieno fa la testa vuota», in tedesco «ein voller Bauch erzeugt keinen witzigen Gedanken» e «ein voller Bauch studiert nicht gern», in inglese «a fat belly, a lean brain», e «a bellyful of gluttony will never study willingly», per fare degli esempi immediati.

Alla luce di ciò, il «gurdus», che è la voce paterna del vocabolo materno «‘u vurdu», non è che sia così deficitato da non cogliere le relazioni tra le cose!? Una curiosità prima di proseguire avanti: da fonti orali apprendo che i termini della discussione, in contesti del tutto diversi, possono addirittura comparire in contrapposizione, come «né abbuttu né dijunu = né sazio, né affamato».

Un cliché vernacolare, lasciatemelo dire, come artificio retorico: si vedano, dal punto di vista stilistico, infatti, «né mori né campa, «nè vò cantari nè vò purtari a cruci», «né muartu ciangiri, né bbivu cunsulari», «a stu mumentu, un puazzu né fujiri né assicutari», che fanno trasparire, a mio avviso, uno scetticismo linguistico di un’antropologia popperiana che si nega per identificarsi. «‘Na mmucciatella», praticamente!

Che dire, ancora, dopo questa chiosa d’intermezzo, tornando al nostro modo di dire?

A quanti si fanno «‘i mastri» vale il dantesco «‘ntender no la può chi no la prova»: quindi, attenti, ogniqualvolta diamo fiato all’ugola, vale come regola!

P.S.: Un particolare ringraziamento ad Aldina Mastroianni, che mi ha dato la possibilità di comprendere e di spaziare sulle sfumature di un detto popolarissimo: grazie!!!

Prof. Francesco Polopoli

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