Un piccolo teatro come Il Piccolo. Patres al teatro Umberto
3 min di letturaImmaginando di stare a Milano al tempo di Paolo Grassi ascoltiamo Alessandro Toppi e Dario Tomasello parlare di Patres con il regista Saverio Tavano.
Dalla platea affollata, con spettatori in piedi, si sono appena sentiti gli applausi ripetuti a Gianluca Vetromilo e Dario Natale, i due attori protagonisti dell’atto unico “Patres”, spettacolo già più volte visto, da alcuni di noi, e amato come un nostro simile.
Con più di quaranta rappresentazioni in molti teatri italiani Patres è stato più volte premiato. Più e Più, scrissi io a Saverio Tavano, al suo conoscerlo, rapita dal suo talento, oltre i confini geografici e temporali.
Patres sconfigge l’augusto spazio dei luoghi, del pantano locale, per sfuggire, malgrado la netta collocazione del navigatore, ad una matrice che non sia quella umana.
Come Dario Tomasello chiude il suo intervento con quell’aggettivo
“Umano” che connota la differenza fra teatro di genere e teatro con la T maiuscola, questo testo appena visto ha spostato la marginalità del territorio in un universale che ci appartiene, malgrado il dialetto e nonostante lui. Forse un dialetto impreciso, non propriamente del Cafarone, ma cosa importa? Non è il dialetto la dominante del testo. Qui domina il tragico destino individuale di scelte di singoli che soggiacciono a disegni malvagi. Ineluttabile mondo de I Vinti di Verga, dei pescatori di Aci Trezza, dei pescatori che ormai potranno pescare cadaveri nelle loro reti.
Getta le tue reti, cantava Bertoli, tanto pesce pescherai.
Ora il pesce ancora sta sui banchi delle pescherie e surgelato ci guarda mentre tutto non è più buono, non solo il pesce.
Nella denunzia del male, del tumore che incalza, come la lebbra del nostro secolo, ci sta dolente il rapporto padre-figlio.
Un rapporto terribile. Sulla disillusione, sull’inganno, sulla non accettazione.
Il padre non accetta il figlio, il padre va via, torna e lo lava, lo abbandona di nuovo a quella corda che sembra il destino di un figlio problematico.
Moltissimi ormai fanno dei loro limiti una vittoria, una forza, qui, nel testo, ed in alcune tristi realtà, quel limite diventa la condanna ad un esilio da scontare da vivi, perché la morte si sconta vivendo. Nello spostamento dal verticale all’orizzontale sul piano di una relazione cercata e non ottenuta sta il discorso di Dario Tomasello, mentre la testimonianza di Alessandro Toppi, da critico teatrale attento a un teatro vivente, urla compostamente quanto di bello ci sia in teatri piccoli, in sperimentazioni che avrebbero bisogno di essere sostenuti perché validi, senza tagliare fondi “alla cicatigna” per dirla in dialetto e chiamare teatro quello che non lo è. Ricordando Emma Dante e suo spettacolo, durante queste feste natalizie, in un piccolo teatro, con trenta posti, Alessandro ci ha ridato la magia del recitare, del poter applaudire un vero spettacolo.
Con in mano il libro edito dalla casa editrice “La Mongolfiera” voliamo anche noi nei cieli del teatro vero. Da spettatori uscenti sul palco della vita.
Piccola nota per sorridere: Da pubblico in piedi, e accoccolata sul gradino, io poi presi il posto di Alessandro e seduta nel riservato dedicato ai critici veri mi impregnai dello spirito di Flaiano.
Ippolita Luzzo