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Un viaggio “Nel corpo dell’arte”

4 min di lettura

Catanzaro, 28 settembre 2019. Inaugurata al Marca la mostra antologica di Gaetano Zampogna dal titolo Nel corpo dell’arte a cura di Teodolinda Coltellaro e Giorgio De Finis.

La mostra, promossa dall’Amministrazione Provinciale di Catanzaro e dalla Fondazione Rocco Guglielmo, propone 30 opere selezionate e tra le più significative del corpus pittorico di Zampogna, nato a Scido in provincia  di Reggio Calabria nel 1946 e romano d’adozione, tracciandone il percorso artistico iniziato alla fine degli Anni ’80 con il gruppo Artmedia le cui basi teoriche si fondano su una concezione dell’arte intesa come “appropriazione e saccheggio” di opere del ‘900.

L’allestimento negli spazi espositivi del Museo delle Arti è stato curato da Teodolinda Coltellaro che ha privilegiato un percorso non cronologico ma visivo-emozionale in cui ogni opera è un evento significativo nella singolarità lampante della sua presenza.

I tanti “Senza titolo” che vestono le pareti della prima sala sono dedicati alle “macellerie animali”. Un tema presente nella storia della pittura sin dal 1600 ma che in Zampogna diventa un’esperienza soggettiva, solitaria, intensa.

I delicati pattern a motivi floreali che fanno da sfondo alle opere addolciscono la violenza in quei luoghi di lavoro e di morte. Il ductus pittorico dell’artista sembra accarezzare con sacra devozione quelle bestie sventrate e acefale che offrono allo sguardo l’impietosa putrefazione della vita.

La scelta della monocromia nelle mezzetinte del grigio per i quarti di bue appesi a gocciolare stempera la sanguinolenta brutalità della carne che irrora teschi umani in un mut(u)o dialogo tra feritas e humanitas laddove il sangue che sgorga a fiotti da una capra sgozzata (chiaro rimando al rito dei pellegrini durante i festeggiamenti della Madonna di Polsi) si rapprende in una pozza vermiglia simile a un fiore esploso.

Piccoli pezzi di morte giacciono su tele dove si rincorrono gioiosi elefantini circensi mentre scimmiette burlone giocano con melagrane d’oro di calviniana memoria e gatti matissiani appaiono sullo sfondo come ombre fugaci.

Macellai indifferenti nel loro camice bianco scarnificano disossano tagliano scavano rifilano, mostrano la testa di un porcellino rosa come un trofeo o si cristallizzano in pose frontali come angeli della morte contro innevati paesaggi natalizi.

Eppure c’è armonia, lirismo e quiete in questa fredda vita dove la morte è decontestualizzata ironicamente dalla lucida serenità ambientale. La compresenza nel medesimo contesto spaziale di elementi  chiaramente disparati stabilisce – in modo autonomo – il reale rapporto simbolico tra segni e significati in una relazione che non risulta né di estraneità né di subordinazione. La grammatica compositiva propria dell’autore riesce a recuperare valenze figurative e rimandi visivi che alludono ai grandi maestri del passato (Rembrandt, i Carracci, Chaïm Soutine, Picasso, Francis  Bacon) ma non come ritorno a linee già ampiamente praticate quanto rielaborazione di quelle esperienze in senso più intimo e tragico. Così la morte, da metafora dell’inquietudine soggettiva e solipsistica dell’artista si tramuta in metafora di inquietudine sociale dove sta l’umanità ancorata alla sua carne con insano desiderio di eternità. Un’arte né consolante né consolatoria in cui, tuttavia, si scorge una volontà di glorificazione della vita nel suo ineludibile cerchio di nascita, copula e morte.

L’itinerario espositivo prosegue con grandi campiture nutrite di vivaci pigmenti monocromatici dove la trama della tela si confonde con le linee morbide di volti anonimi. In un  angolo, presenze discrete ma potenti, le copertine di riviste internazionali come “finestre sul mondo”.

Mondo che irrompe – esuberante – in un’altra serie di opere in cui ogni quadro è un processo che nel flusso di immagini conserva i segni della sua polivalenza  linguistica. Così la fotografia dialoga con scampoli di prosa quotidiana, immagini pubblicitarie, fumetti, emoji  e altri elementi iconici attinti dall’universo mediologico in una umorosa ricostruzione/distruzione animata da accentuazioni paradossali, deviazioni parodistiche e interventi personali quasi deformanti che dall’ordine grafico trapassano in quello oggettuale. Opere come sketch televisivi o teatrali, rappresentazioni argute, provocanti, beffarde che giocano sulle parole e queste rimbalzano sugli oggetti conferendo alla pittura una presenza scenica disvelatrice della mediocrità del reale.

Reale che si contrappone al Virtuale in ritratti speculari eseguiti con impeccabile figurativismo a sottolineare una intercambiabilità tra i due mondi in un gioco cromatico di contrasti.

E ancora la fotografia in Cibachrome che trova luminosa conferma nei grandi formati con l’inserimento di opere di Lewitt e Wharol. Una pellicola traslucida cuce tra loro i vari inserti con immagini di modernariato tessendo una superficie continua dove i colori dei singoli prelievi quasi si compenetrano e si fondono fino a raggiungere un intenso equilibrio tonale.

Una mostra inquietante e affascinante questa di Gaetano Zampogna, artista che, al di là dell’eccellenza tecnica, riesce a contaminare poeticamente il suo spazio interiore con quello esteriore nell’eterna ricerca dell’essenza nell’arte e nella vita.

Giovanna Villella

[foto Antonio Renda / foto tratte da catalogo pubblicato da Silvana Editoriale]

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