Vacantiandu. ‘I fiori del latte’ o del valore dell’onestà
6 min di letturaCatanzaro, 8 febbraio 2019. I fiori del latte, questo lo spettacolo che Biagio Izzo ha portato in scena al Teatro Comunale di Catanzaro per il sesto appuntamento con la rassegna teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta. La rassegna è inserita nell’omonimo progetto regionale con validità triennale finanziato con fondi PAC.
Uno spettacolo esilarante e pieno di rimandi. Il titolo ricorda per assonanza I fiori del male di Baudelaire e in scena campeggia una gigantesca mozzarella morsa che evoca la ben più famosa mela della Apple. Ma tanti sono gli omaggi, le suggestioni, le citazioni disseminati qua e là nel testo da Puskin a Leone (Tolstòj), da Totò e Peppino a Eduardo ad Arthur Miller, dal Festival di Sanremo – con il caseificio trasformato in palco dei fiori – a Barbara D’Urso fino alla pubblicità televisiva…
Un’idea del regista Giuseppe Miale di Mauro e dello scenografo Luigi Ferrigno che amano contaminare i diversi linguaggi artistici e offrire al pubblico più livelli di lettura.
E tante sono le sollecitazioni che nascono da questo spettacolo nato dalla felice penna di uno dei più interessanti autori italiani, Eduardo Tartaglia che è anche attore, regista, direttore artistico. Un testo scritto nel 2004 per denunciare, usando le armi del divertimento, la terribile tematica della terra dei fuochi ma rimaneggiato e attualizzato per questo nuovo allestimento, cercando il giusto equilibrio tra il registro comico e quello drammatico.
Siamo a Casaldisotto Scalo in Campania, un paese di fantasia (ma solo nel nome!). Qui, due cugini vaccari, Aniello e Costantino Scapece hanno appena realizzato il sogno della loro vita dando fondo a tutti i loro risparmi: un caseificio, a guisa di navicella spaziale, modernissimo “…il fior fiore dei fiori all’occhiello di Casaldisotto Scalo!… che, in linea con le nuove tendenze biologiche è specializzato nella creazione di prodotti rigorosamente genuini e naturali. Ma poco prima dell’inaugurazione, il ritrovamento di un bidone sospetto da parte di un tenero cane affetto da crisi di identità, rischia di compromettere tutto.
A questo punto iniziano i tormenti interiori dei due personaggi, anime semplici che si portano dentro, intatto, un universo di valori “antichi” quali la lealtà, l’onestà, il senso della famiglia e che, all’improvviso, si trovano a dover gestire una situazione gravissima, combattuti tra la tentazione di mettere tutto a tacere e proseguire nella loro attività di produzione casearia o denunciare e rischiare di vedere svanire il loro sogno.
L’arrivo di Regina, ex fidanzata di Aniello, sarà provvidenziale per l’happy end finale.
Un cast affiatatissimo dove ogni attore brilla di luce propria.
Verace e irresistibile l’Aniello di Biagio Izzo che mostra tutta la sua potente vis comica fatta di lazzi, smorfie, battute e vorticoso gesticolare. Ma questo lato buffonesco, nonostante qualche smarrimento, cela una profonda sensibilità d’animo svelandoci, alla luce di quella mozzarella gigante che si trasforma in lattiginosa luna (e qui nasce spontanea una vaga reminiscenza del vaccaro Aniello con il pastore errante dell’Asia di leopardiana memoria) un uomo con dentro il sogno di una felicità “normale”, infantile e quasi commovente.
Vulcanico e travolgente Mario Pòrfito nel ruolo di Costantino. Un J.R. della “Mozzarella Valley” in salsa partenopea che vuole portare avanti l’azienda non disdegnando qualche compromesso per avviare un processo di internazionalizzazione. La sua presenza scenica è resa ancor più esuberante da quella maschera carica di spunti comici sino ai limiti dell’improvviso che si cuce addosso, alimentata dalla forte accentuazione napoletana in cui le parole, orecchiate e mai capite, vengono sbeffeggiate smozzicate deturpate maciullate in una immaginifica bagarre linguistica. Esilarante la scena del funerale canino, con quel bidone a mo’ di ostensorio, sulle note di una marcetta funebre ma nel finale ritroviamo l’anima pura del vaccaro che dal male è stata solo tentata e non intaccata.
Ottima l’interpretazione di Angela De Matteo che sa imprimere una forte personalità al personaggio di Regina soprattutto nella scena che ricorda una Filumena Marturano in sedicesimo ma senza quell’urgenza di legittimazione sociale che Filumena estorce con l’inganno. È una giovane donna che crede nell’ammore (con due “m” come direbbe Nino D’Angelo perché così è ancora più “amore”) e per quanto finga di negarlo perfino a se stessa, quel velo da sposa occultato nella valigia, lo palesa.
E sarà proprio questo amore e quegli antichi valori come l’amicizia, la famiglia, il rispetto, il sentirsi parte di una comunità a ricomporre la frattura creata dalla cupidigia, dall’ambizione e dalla bramosia spingendo i due cugini a fare una scelta etica e morale. La scelta giusta. Perché la vera ricchezza sta nella semplicità del cuore e della natura.
Intorno a questa triade di personaggi buoni e onesti ruotano dei loschi figuri travestiti da persone perbene.
Cinico e spregiudicato il Pierugetti di Stefano Jotti, imprenditore del Nord che vuole stringere un accordo commerciale con i due cugini.
Insinuante, corrotto e corruttore il dr. Muorzo di Stefano Meglio, funzionario comunale il cui compito è quello di controllare la salubrità delle terre dove sorgono le aziende.
Perfetto nella sua ambiguità il Cyril di Ivan Senin, ingegnere fisico russo emigrato in Italia per fare il bracciante agricolo stagionale.
I tre, eseguendo gli ordini di un invisibile quanto minaccioso “manovratore” che vuole la terra degli Scapece per impiantare una più redditizia discarica di rifiuti tossici, insidiano, blandiscono e ingannano pronti a tendere continuamente la rete della perfidia e della voracità cannibalica.
Ma sarà proprio lo “straniero” Cyril, in un rigurgito di coscienza, a denunciarli, smascherando il loro gioco e salvando gli Scapece dal fallimento della loro azienda. E sarà ancora Cyril, in un vibrante dialogo con Aniello che trova il suo compendio in un solo verbo, quell’ imperativo esortativo “scava… scava…”, a dargli la forza di resistere e di combattere.
E qui si scontrano anche due mondi, due filosofie, due paesaggi geograficamente distanti e antitetici che, tuttavia, trovano una sintesi in quel pensiero che dovrebbe accomunare i popoli di tutte le latitudini, quello che gli Indios del Sud America chiamano “Pachamama”, “Madre Terra”, della quale ognuno di noi si dovrebbe far custode alla pari dei pastori, dei contadini, dei pescatori che rischiano di essere cancellati dalle regole del mercato globale, dell’industria, dell’agricoltura geneticamente modificata, dell’eco-mafia.
Questo il messaggio e la forza di questo testo scritto sulle orme della grande tradizione eduardiana. “Se un’idea non ha significato e utilità sociale non m’interessa lavorarci sopra” diceva De Filippo. Così il teatro, attraverso il sorriso, si riappropria della sua funzione sociale e politica infondendo coraggio e speranza.
Uno spettacolo saporoso impreziosito dai bei costumi (con quel tocco di cowboy style) di Giovanna Napolitano, le luci di Gigi Ascione che vanno dalle penombre a solarità più mediterranee, il suggestivo tappeto sonoro di Mariano Bellopede.
Applausi a scena aperta e ovazione finale per tutti gli interpreti, straordinari e di ineccepibile professionalità, che hanno entusiasmato il pubblico del Comunale e poi la consegna della maschera di ceramica, simbolo della rassegna Vacantiandu, a Biagio Izzo da parte di Nico Morelli, direttore artistico e Walter Vasta, direttore amministrativo.
Giovanna Villella
[foto di scena_Ennio Stranieri]