Vacantiandu. “Vero West”, una storia americana
5 min di letturaLamezia Terme, 2 febbraio 2020. Ancora un appuntamento con la V edizione del Gran Premio del Teatro Amatoriale Italiano ospitato per la prima volta in Calabria nell’ambito della rassegna teatrale Vacantiandu.
In scena, al Teatro Comunale Grandinetti, dalla Liguria La Quinta Praticabile / Associazione culturale Quante Quinte di Genova con lo spettacolo Vero West di Sam Shepard diretto da Andrea Scarel nella doppia veste di regista e attore. Sul palco anche Marco Mesmaeker, Davide Quillico e Rosanna Ricciardi.
La cupezza di uno spazio scenico quasi nudo, perimetrato da quinte nere, due scrivanie di legno, qualche sedia, un carrello colmo di bottiglie e delle piante, in un angolo. Due fratelli, Austin e Lee. Diversi per carattere e per scelte di vita che si ritrovano a casa della madre partita per una vacanza in Alaska.
La scrittura densa e rappresa di Shepard, in cui si intravvede un autobiografismo diffuso, è giocata drammaturgicamente sul conflitto tra i due personaggi. Conflitto che si traduce sulla scena in rabbia, scontro fisico, guerra psicologica.
La storia intera appare deliberatamente teatrale, ambigua e scaltra come deve essere la scrittura che scopre via via i suoi segreti, i turbamenti inconfessabili, le manifeste anomalie dei caratteri, la predisposizione degli eventi, le anguste metafore dell’esistenza.
L’azione si svolge in un unico ambiente, la cucina, e la vita esterna vi penetra solo attraverso il frinire dei grilli, i latrati dei cani, gli ululati dei coyote.
Tuttavia, la tensione drammatica, al di là del dinamismo e di un gran turbinare di oggetti lanciati, frantumati, colpiti, svuotati, lasciati cadere corre sotterranea e si sviluppa intorno al tema dell’assenza genitoriale. Un padre alcolista che è andato via e una madre troppo preoccupata a curarsi delle piante e a collezionare ceramiche d’epoca. Austin e Lee sono figli di quest’assenza: “Siamo l’eco di qualcun altro” dice Austin che ha cercato di colmare questo vuoto con la scrittura. Egli è il sopravvissuto di una devastazione familiare, con la consapevolezza di una mancanza che è esigenza di ordine emotivo oltre che intellettuale, l’uomo di successo che ha trovato una sua dimensione personale e sociale. Mentre Lee è l’eroe randagio, il fallito che cerca di riempire con i furti, i cani da combattimento e i viaggi nel deserto la sua voragine interiore. Ma il deserto, Lee, se lo porta dentro.
L’arrivo del produttore Saul Kipper che deve concludere il contratto per la sceneggiatura scritta da Austin è la miccia che fa deflagrare il rapporto tra i due fratelli. Davide Quillico disegna, con la giusta ambiguità, un Saul ondivago il quale, nel preferire la storia di Lee, un racconto di vita “vera”, a quella di Austin, una storia d’amore inventata, determina il ribaltamento dei ruoli: Lee si cimenterà nella parte dello sceneggiatore e Austin proverà l’ebbrezza del furto, rubando tostapane nelle case dei vicini.
Moderni Caino e Abele, vittime e carnefici di loro stessi, Austin e Lee coltivano il sogno infantile di una felicità impossibile, che porterà inesorabilmente alla sconfitta di entrambi.
L’intensità interpretativa di Marco Mesmaeker nel ruolo di Austin si misura anche sull’immobilità e sui silenzi. Il tono pacato all’inizio della narrazione, l’accondiscendenza e poi la rabbia urlata nei confronti del fratello che lo vuole depredare del suo sogno, e ancora la ritrovata complicità nel rievocare ricordi dell’infanzia e il loro rapporto con il padre e, infine, il suo cedimento di fronte al ricatto di Lee sono spie di una solitudine interiore, di un senso di inadeguatezza che comincia a minare la sua vocazione di scrittore come creatore di un mondo “altro” da sé e quindi una riflessione sulla propria identità “Non c’è niente di reale qui e men che tutto io…” che fa scattare la sua carica di violenza con quel grido di disperazione finale.
Inquieto e vibrante, il Lee di Andrea Scarel. Con quella frenesia incessante di bere, sembra la manifestazione fisica di suo padre. Nomade senza fissa dimora, è l’archetipo del mitico West: un fuorilegge che vive secondo un suo codice morale. Subdolo e insinuante di proposito, sempre pronto a tendere la sua rete con piacevole perfidia, Scarel costruisce un personaggio attraversato da correnti emotive e nervose alternate. Chiuso in una diversità che va ben oltre la semplice aggressività come tratto caratteriale prevalente, la sua è una rivincita sulla supposta superiorità intellettuale del fratello a cui riesce a sottrarre il monopolio della capacità creativa e quindi la sua identità di scrittore.
La madre, nella fugace ma significativa presenza di Rossana Ricciardi, è una figura anaffettiva, insensibile alla preghiera di Austin “Ti prego, resta qui, questa è casa tua”. “Non la riconosco più” risponde lei, disconoscendo implicitamente anche i figli.
La regia rigorosa e pulita di Andrea Scarel, tutta dentro al testo e in rapporto agli attori, sottolinea una partitura scenica quasi musicale in crescendo, con attenzione ai movimenti, ai gesti (i rabbiosi colpi di mazza inferti da Lee sulla macchina da scrivere che si contrappongono alla tranquilla determinazione di Austin nel tostare il pane) e ai toni delle parole mentre i bui – come pause – scandiscono le scene e il tempo che scorre.
Una bella lezione di teatro, antiretorico, antiaccademico e per nulla prosaico che fornisce una chiave di lettura della società contemporanea i cui valori, convenzioni domestiche, rapporti familiari e sociali sono tutti mutati ma anche una lucida critica al romantico mito del West americano pur travestito da dramma esistenziale.
Finale aperto con i due che si guardano impietosamente come pistoleri in attesa di capire chi sopravvivrà in questa guerra fratricida. Ma è solo un gioco, forse, uno spiazzamento infantile della realtà per sorprendere e sorprendersi di essere ancora vivi, oltre la maschera, una recita tutta privata per ritrovare quei giorni in cui, bambini, andavano sulle colline a catturare i serpenti e a fingere di essere Geronimo mentre Bob Dylan canta North Country Blues…
Buio. Bravi. Applausi.
Al termine dello spettacolo, il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato ad Andrea Scarel.
Giovanna Villella
[ph_Pasquale Cimino]