Venezia.74, pt.2: FIRST REFORMED
3 min di letturaSe ieri ci dicevamo entusiasti del ritorno, anzi dell’arrivo di Del Toro a grandezze finalmente meritate con un grande film (The Shape Of Water, a cui auguriamo tutta la fortuna possibile sulla scia di Birdman e Gravity, due film di genere che, partiti proprio da Venezia, hanno conquistato anche gli Oscar), altro gradito ritorno ad altezze passate è quello di Schrader: che nonostante abbia, in passato, toccato sicuramente più volte del suo collega iberico le cime del capolavoro, con First Reformed ci immerge nella sua visione viscerale, dura e potente del mondo.
L’autore di Toro Scatenato e Hardcore (giusto per nominare una sua sceneggiatura e una sua regia eccellenti) sceglie di declinare le sue ossessioni secondo una sensibilità decisamente nord europea: e allora i colori, le immagini, persino a volte i luoghi e le inquadrature guardano dritte a Bergman e a Dryer.
Sono le loro depressioni e i loro dubbi che assalgono il reverendo interpretato da un grandissimo Ethan Hawke, che dal piccolo del paesino dove svolge le sue funzioni si trova schiacciato letteralmente fra dovere morale e sacerdotale, sofferenze fisiche e angosce personali e familiari.
Austero e rigoroso nelle riflessioni del primo tempo, First Reformed non ha paura, in tempi di terrorismo e terrore, di mettere in scena un prete ambiguo che si lascia sedurre dalla potenza del messaggio lanciato con forza nel sangue: avvicinando ancora di più le latitudini emotive di quest’ultimo Schrader a Bergman, se è vero che proprio due registi attanagliati dal desiderio e (al)lontan(at)i dalla religione sanno esprimere meglio di altri più fedeli la lacerazione del dubbio, il tormento della fede, la fascinazione del Male.
Hawke è ben noto per l’estrema puntualità con cui caratterizza i suoi ruoli, e non è da meno qui, dove immerso nella buie luci del nord (e nei chiaroscuri della fotografia di Alexander Dyran) dà volto e voce ad un uomo di chiesa profondamente, eccessivamente coinvolto dai problemi dell’ecosistema, di suo Schrader ci mette mestiere ed ispirazione: se la prima parte è dominata da dialoghi lunghi ed introflessi, rispecchiati in morbidi carrelli e primi piani insistiti, lentamente il film sembra implodere su sé stesso rispecchiando la crisi del suo protagonista, e assume un andamento quasi frenetico e doloroso, fino al montaggio della sequenza nel pre-finale.
Ed è proprio qui che Schrader spiazza lo spettatore: perché se il ritmo dato al film lasciava legittimamente e narrativamente supporre un finale catartico, la visione si ferma invece un passo prima della fine vera e propria, seminando inoltre dubbi sul reale accadimento di quello che vediamo, confondendo i sensi e disturbando una volta di più in un film che si insinua sottopelle come un’angoscia leggera e implacabile.
GianLorenzo Franzì